Questioni di genere
“Il velo del silenzio” che copre una mostruosa normalità
Non è facile presentare un libro come “Il velo del silenzio” di Salvatore Cernuzio (ed.San Paolo) per una persona come me che ha vissuto alcuni anni di vita religiosa, senza sentire una profonda vicinanza con le undici donne che hanno raccontato la propria storia all’autore, giornalista di Vatican News. Non è facile perché, pur nella diversa gradazione di sofferenze e fatiche, è emotivamente soverchiante la sensazione di capire fin troppo bene quello che hanno vissuto le testimoni del libro, dal momento che si tratta di storie tutt’altro che eccezionali o estreme.
Questa è per me, la maggior forza e drammaticità de “Il velo del silenzio”: il senso di spersonalizzazione, controllo e la scoperta che “la maggior virtù è la conformità” sono esperienze comuni per chiunque abbia vissuto o conosca da vicino la vita religiosa femminile.
Questi racconti, dunque, risuonano come straordinariamente normali, solo più drammatici per le conseguenze che hanno avuto sulla vita e la salute di queste donne, ma comunque normali, se così si può dire. Per questo colpisce lo stupore che ha caratterizzato molte delle reazioni al libro, in particolare dalla stampa laica, mentre invece Papa Francesco ha manifestato una grande consapevolezza quando, nel citarlo, ha affermato che interviene: “sul problema degli abusi, ma non degli abusi eclatanti, sugli abusi di tutti i giorni che fanno male alla forza della vocazione”. Esattamente questo essere “abusi di tutti i giorni” è il nucleo più terribile perché, ben prima e ben più che far male alla forza della vocazione, ferisce e a volte uccide le persone (è di poche settimane fa la notizia del suicidio di una giovane suora in India), persone che avevano scelto il convento per trovare quella vita “in abbondanza” promessa da Gesù e che, invece, hanno trovato egoismi e piccinerie capaci di diventare crudeltà e tormento nel chiuso di quattro mura.
Le storie di queste undici donne mi risuonano in testa, ma non è solo la crudeltà delle loro superiore a spaventarmi, mi spaventa ancor più l’idea che torna e ritorna sulla presunta volontà di Dio che porterebbe a soffrire offrendo a Gesù il proprio dolore. È questa visione dolorista, rinvenibile nelle pieghe di un plurisecolare insegnamento cattolico, ad aver aperto il varco a questi abusi: è nell’idea che soffrire per Dio possa essere in qualche modo parte della Sua volontà ad aver portato queste donne a subire – a volte per decenni – gli abusi e ad aver portato altre donne a infierire, giustificandosi col pensiero che anche questo potesse santificarle.
“Ci vogliono molte umiliazioni per guadagnare un po’ di umiltà” mi hanno insegnato in noviziato, ma queste undici donne l’hanno imparato molto meglio di me, scoprendo che però l’unica conseguenza di accettare in silenzio le umiliazioni è quella di perdere la salute, l’amore di sé, la propria stessa vita.
Si può pensare di intervenire su queste dinamiche malate senza metter mano a queste distorsioni del messaggio evangelico e della morale? E possiamo dimenticare che queste comunità religiose non sono “casi isolati”, ma frutti prevedibili di un’impostazione ecclesiale fatta di autoritarismo certo, ma anche di disprezzo e paura del corpo femminile, così ben interiorizzato che sono le stesse donne a negare a queste ragazze la possibilità di curare la propria igiene personale e perfino di curarsi?
Questo libro è importante perché rende giustizia a tutti quei mali che sono sempre passati sotto silenzio, ignorati non perché sconosciuti, bensì perché considerati accettabili nel quadro di riferimento della religione del dolore e dell’umiliazione delle donne.
Sono dei mali, sono peccati nel senso etimologico perché sbagliano il bersaglio e lo fanno sbagliare: ciò che era un mezzo per meglio amare e servire Dio (la vita religiosa), diventa fine in sé stesso e si premia il conformismo per meglio autoconservarsi nel tempo.
Queste undici donne sono incredibili esempi di forza, sono delle sopravvissute letteralmente, ma mi colpisce che però non arrivino a portare la propria consapevolezza fino alle sue estreme conseguenze: il fatto cioè che la Chiesa tutta sia responsabile per queste aberrazioni, per averle permesse quando non favorite; invece è evidente un’ansia di difendere l’Istituzione, di non mettere in discussione l’autorità maschile, in particolare di magnificare l’operato della Congregazione Vaticana per gli Istituti di Vita Consacrata. La Chiesa Istituzione non si tocca, come non si tocca il problema della condizione di minorità nella quale le suore – tutte le suore, superiore carnefici comprese – vivono rispetto ai preti, in un sistema maschile e gerarchico che le condanna irrimediabilmente all’insignificanza.
Questo mi dispiace perché vedo due sole possibili ragioni: la prima è che queste donne siano ancora del tutto o in parte dipendenti dalla Chiesa per i loro bisogni primari e non possano parlare neppure ora apertamente, la seconda è che non abbiano compiuto fino in fondo il cammino di consapevolezza di sé cui ogni donna è chiamata e che rappresenta la più grande lezione del femminismo, quel “donne si diventa” di Simone de Beauvoir. E io spero che prima o poi lo compiano, magari con l’aiuto di altre donne.
È un libro importante, dicevo, ma che vede una grande mancanza, come ben rileva Ludovica Eugenio su Adista, manca l’elemento maschile nelle storie, c’è solo un prete predatore sessuale, che però viene in qualche modo offuscato nel suo crimine dall’insistenza sulla superiora che lo copre, nulla si dice sull’influenza maschile sulla vita religiosa femminile che pure gli ultimi documenti (si pensi all’Istruzione Cor Orans del 2018) non mancano di confermare. In compenso è molto maschile il libro stesso: è un uomo l’autore, di un uomo la firma dell’introduzione (Padre Giovanni Cucci sj al cui articolo per Civiltà Cattolica Cernuzio si rifà), ma sono uomini anche gli esperti coinvolti e intervistati al termine del volume. Uomini che danno voce alle donne in maniera seria e empatica, ma anche che parlano delle donne, come se queste non sapessero o potessero parlare da sé. Unica voce femminile, nella prefazione, suor Nathalie Bequart che è un’eccezione nella Chiesa in senso assoluto, vicesegretaria al Sinodo dei Vescovi e – al momento – unica donna per la quale sia stato garantito il voto al prossimo Sinodo. E pensare che le donne autorevoli nella Chiesa siano ancora un’eccezione è parte integrante del problema.
Come donna impegnata nella promozione delle donne nella Chiesa e anche, in rete con altre donne e associazioni di donne, per scoperchiare gli abusi sessuali sulle religiose, non posso che essere grata a Salvatore Cernuzio per questo lavoro che, però, dev’essere considerato solo un tassello di un processo più grande e che si dirà compiuto solo quando le donne sentiranno di poter finalmente parlare in prima persona, perché questo vorrà dire che le premesse del cambiamento saranno davvero poste.
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