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Le vite spente degli orfani di femminicidio
Il riconoscimento del femminicidio tenta di ritagliarsi da più di vent’anni uno spazio autonomo, visibile, necessario a comprendere cause e portata di un fenomeno tanto complesso. La difficoltà nel costruire una categoria criminologica in grado di riassumere un processo di sopraffazione lungo quanto la storia dell’umanità, e che ne ha percorso culture e religioni, è stata sostituita col tempo dalla sovrapposizione del fenomeno alla categoria stessa, al reato, al singolo momento in cui la vita di una donna viene spezzata dalle mani di un uomo.
Tuttavia, nominare qualcosa significa anche dare ad essa un’identità, una forma da osservare in modo diretto per leggerla in tutte le sue ramificazioni. Il femminicidio è un fenomeno strutturale per la complessità dei processi che ne sono all’origine: cultura patriarcale, pratiche sociali misogine, discriminazioni, violenze, privazioni della libertà, insignificanza giuridica della donna.
Ma non solo.
È un fenomeno strutturale per le sue sconosciute -e ignorate- conseguenze, in grado di distruggere intere vite e di annientarle, in un istante.
Sono stati più di 1600 gli orfani di femminicidio del nostro Paese, negli ultimi 15 anni: 417 negli ultimi 3. Più di 1600 bambini e adolescenti privati nello stesso momento della madre, uccisa in modo violento, e del padre, nella stragrande maggioranza dei casi autore del delitto (con più dell’80% gli orfani coinvolti già in precedenza in atti di violenza familiare): a volte quest’ultimo sceglie la via del suicidio (circa il 30% dei casi), altre viene condannato a trascorrere numerosi anni in carcere.
Gli orfani di femminicidio sono una parte della popolazione invisibile ma estremamente fragile, su cui gli eventi della vita si sono abbattuti come una calamità che ha trascinato tutto con sé: famiglia, casa, amicizie, serenità, abitudini.
Il progetto Switch-off, Supporting WITness Children From Feminicide in Europe, ha coinvolto negli ultimi anni alcune università e associazioni europee nel tentativo di far emergere questa condizione esistenziale dal buio e dalla marginalità; tra i soggetti protagonisti il Dipartimento di Psicologia della Seconda Università degli Studi di Napoli e la Rete nazionale dei Centri antiviolenza D.i.Re. La ricerca è stata volta, in primis, a rintracciare i figli delle donne vittime di femminicidio: un passo scontratosi da subito con l’insussistenza, a livello istituzionale, di dati utili a connettersi con questa realtà. Oltre alle Procure, infatti, le uniche fonti disponibili sono risultate essere i giornali e le trasmissioni televisive, a dimostrazione dell’irrilevanza giuridica e sociale attribuita alla vita di questi bambini e ragazzi.
Eppure dovrebbe essere chiaro che chi ha vissuto un’esperienza del genere ha una probabilità altissima di divenire un adulto disfunzionale, problematico, potenzialmente suscettibile di provocare danni a sé stesso e alla collettività. Gli orfani del femminicidio sperimentano le conseguenze di una tragedia inimmaginabile in cui convivono dolore, paura, angoscia. Come racconta chi si è assunto la responsabilità di accoglierne l’affidamento, negli anni successivi al dramma soffriranno di moltissimi disturbi: bambini e ragazzi senza pace soggetti a isolamento, instabilità, distacco emotivo, vergogna, senso di colpa.
Bambini e ragazzi ossessionati da molte paure: del padre, dei rumori, del sangue, degli odori, delle ombre. Paura di affrontare una imprevidibilità che ha tolto loro ogni angolo di conforto.
I dati emersi dal monitoraggio risultano per alcuni aspetti prevedibili: dei 123 orfani raggiunti dalla ricerca e che hanno accettato di partecipare all’indagine, circa l’84% era minorenne al momento del fatto. Tra questi il 39% era presente durante l’omicidio, avendo assistito direttamente, o ascoltato, quanto accaduto alla madre.
Al di là del drammatico evento, su cui è concentrata l’attenzione mediatica, c’è tuttavia una intera esistenza da recuperare, riscrivere e reinventare. I minori intervistati sono stati affidati nella maggioranza dei casi (il 59%) a nonni e zii materni, nel 25% ai servizi sociali, nel 9% a nonni o zii paterni e nel 7% dei casi a sorelle o fratelli maggiori. Le persone coinvolte nell’aiuto e nella ricostruzione di queste vite spente hanno dipinto un quadro non soltanto straziante ma costellato di ostacoli e indifferenza, anche da parte delle istituzioni.
I dati emersi risultano difficilmente accettabili in una società che fa della retorica contro il femminicidio e la violenza sulle donne uno dei leit motiv della comunicazione e dell’informazione: un terzo delle persone intervistate sostiene, infatti, di non aver ricevuto alcun tipo di supporto dopo l’evento; il sostegno economico è stato percepito invece soltanto dal 2% degli orfani: in questa condizione gli aiuti principali sono venuti dal supporto familiare (22%) e psicologico (43%).
Anche i caregiver, le famiglie affidatarie, hanno denunciato un sostanziale abbandono da parte delle istituzioni: famiglie che si ritrovano improvvisamente a stravolgere le proprie vite, per conciliare il dolore personale con la necessaria e completa assistenza verso gli orfani. Circa il 75% ha lamentato serie problematiche nella gestione dei minori, senza aver ricevuto, nel 35% dei casi, nemmeno il fondamentale sostegno psicologico. Quasi il 20% ha denunciato, infine, difficoltà economiche.
Sulla base del quadro emerso dalla ricerca i soggetti promotori hanno tratteggiato alcuni spunti di riflessione volti a individuare possibili interventi futuri. In primo luogo, sotto il profilo economico, risulta urgente l’istituzione di un Fondo nazionale per gli orfani da femminicidio che consenta di sostenere concretamente le vite degli orfani, ri-accendendo in loro la scintilla che la violenza ha spento. Un aiuto in tal senso potrebbe venire dalla Legge di bilancio 2017 appena approvata, che prevede lo stanziamento di 5 milioni di euro per attività di assistenza e sostegno alle donne vittime di violenza e ai loro figli da destinare al controverso Piano d’azione straordinario contro la violenza sessuale e di genere: risorse largamente insufficienti ma che rappresentano, potenzialmente, una presa di coscienza circa la vasta complessità del fenomeno. Ulteriore strumento potrebbe essere la possibilità di riconoscere la pensione di reversibilità della madre direttamente ai figli, invece che al coniuge.
Da un punto di vista più strettamente penale, accanto alla riduzione dei tempi e all’azzeramento delle spese processuali, risulta necessaria l’introduzione di una norma in grado di impedire, allo scadere della pena e ove sia richiesto, l‘avvicinamento del padre ai luoghi frequentati dall’orfano. Un ulteriore aspetto simbolico potrebbe essere la possibilità di cambiare il proprio cognome, ovviamente in accordo alle sensibilità e alle volontà dei minori coinvolti.
Nella ormai inflazionata “epoca della post-verità“, in cui i fatti oggettivi hanno meno peso dei fattori emotivi, occorrerebbe tenere sempre a mente che la narrazione sulla violenza di genere quale evento singolo e imprevedibile ne distorce la reale portata: e non soltanto perché impedisce di coglierne le origini strutturali. Anche ciò che appare come il suo tragico e definitivo epilogo, il femminicidio, è in grado di continuare a mietere vittime senza soluzione di continuità.
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