Famiglia
Sulla pelle delle famiglie: il caso del bambino abbandonato in ospedale a Torino
In un’epoca nella quale l’informazione, così come il dibattito pubblico, sembrano guidati esclusivamente dalla spinta emotiva, portando ad una narrazione emozionale dei fatti che ammicca, a volte inconsapevolmente, molto più spesso consapevolmente alla pancia del pubblico, è ancora possibile affrontare con serietà e spirito critico il dibattito generato da una notizia come quella apparsa ieri sui giornali dell’abbandono in ospedale di un neonato affetto da una patologia incurabile?
La risposta più ovvia sembra essere no, dato soprattutto l’altissimo numero di contributi giudicanti, moralizzatori e – in buona parte – completamente privi di approfondimento apparsi su alcune delle maggiori testate italiane. Si parte da chi, riducendo nel titolo l’Ittiosi arlecchino, questo il male di cui è affetto il bambino, a “grave problema alla pelle”, porta i lettori a pensare che si tratti di un abbandono dovuto a motivi “estetici” o di scarsa rispondenza al desiderio dei genitori. Cosa sarà mai in fondo una malattia della pelle? Ben più gravi gli editoriali che mettono in discussione l’umanità di questi genitori che, egoisticamente, avrebbero fatto ricorso alla fecondazione assistita per avere un figlio per poi “liberarsene” una volta che questo si è rivelato “difettoso”. L’orrore giornalistico corre sulla tastiera. Pochi, molto pochi, sono stati coloro che hanno descritto in modo oggettivo e accurato che cosa significhi essere portatori di questo male e cosa significhi, in termini di tempo, costi, disponibilità di strutture e presidi, provare a far sopravvivere un bambino affetto da questo male. L’Ittiosi arlecchino è una malattia rara che causa l’ispessimento in placche della pelle del paziente, che perde di elasticità, provocando difficoltà nei movimenti, nella respirazione, nell’alimentazione, alla vista. Chi è affetto da Ittiosi arlecchino deve seguire scrupolosamente una serie di procedure quotidiane complesse e, non dimentichiamolo, dolorose, legate alla cura della pelle per evitare infezioni che possono rivelarsi letali. Chi ha subito un’ustione, pur di modesta portata, sa cosa significa vivere, anche per un breve periodo, con una porzione di epidermide pesantemente danneggiata. Per chi è affetto da Ittiosi questa condizione è cronica e incurabile e comporta una serie di limiti piuttosto consistenti anche per quanto riguarda la possibilità di uscire all’aperto. Un documentario sulla vita di alcune persone affette da ittiosi, fra le poche ad essere sopravvissute così a lungo e che vogliono giustamente trasmettere un messaggio positivo e di speranza, fa capire meglio cosa voglia dire farsi carico di questo male, pur in un contesto di amore e cura familiare.
Chiarito il quadro sanitario del caso, le scelte potrebbero sembrare ancora non condivisibili, ma forse comprensibili. Per prendersi cura di un neonato affetto da questa patologia occorre un tempo di vita, un lavoro, un reddito, un supporto che non tutte le famiglie hanno. Lo Stato, in questo senso, fa molto, ma non tutte le situazioni familiari consentono di garantire la cura necessaria di una patologia di questo tipo. Eppure, sostiene qualcuno, questa famiglia aveva desiderato così tanto un figlio da sottoporsi alle procedure di fecondazione assistita. Questo percorso sembra cambiare, per molti, le carte in tavola, come se – solo per il fatto di aver sostenuto un iter più complesso, doloroso, faticoso rispetto a una coppia che si trova a concepire senza difficoltà in modo “naturale” – implicasse un grado di responsabilità superiore nei genitori. Ricorda forse lo stigma sociale che colpisce le famiglie che, dopo aver portato avanti un’adozione, si trovano ad affrontare una separazione o gestire percorsi di “disagio”. “Hai voluto un figlio a dispetto di tutto, ora qualsiasi situazione deve andarti bene“. Come se ad una coppia che ha concepito un figlio in modo naturale e senza difficoltà venisse costantemente rimproverato di aver messo al mondo una persona per poi farle affrontare le difficoltà della vita. Siano esse di salute, psicologiche o di relazione. Qui però si parla di abbandono: allora, restando in tema, guardiamo i dati. Ogni anno in Italia poco meno di 300 neonati vengono abbandonati alla nascita in ospedale. Alcuni per ragioni relazionali (i genitori non vogliono essere tali, ma hanno preferito non ricorrere all’aborto), alcuni per ragioni economico/sociali, altri per ragioni medico sanitarie. Quasi 300 neonati l’anno, di cui una parte perfettamente sana. La reazione scatenata da questo caso quindi pare, almeno da un punto di vista razionale, decisamente eccessiva: quanti articoli vengono redatti sull’abbandono di minori affetti da sindrome di Down? Quanti per bambini sordomuti o ciechi? Quanti per bambini perfettamente sani, ma con alle spalle storie di disagio alle quali nessuno è riuscito a far fronte magari? Pochi.
La differenza sta nelle procedure che hanno accompagnato la nascita? Forse. Questo perché ci risulta più comprensibile “tollerare” un abbandono dovuto al caso (un concepimento non cercato, un errore genetico in un concepimento naturale), piuttosto che confrontarci seriamente sul tema del carico implicato dalla genitorialità. Fare i genitori è difficile, è un impegno costante di cui, chi decide di ricorrere alla fecondazione assistita (come chi decide coscientemente di avere un figlio in generale) vuole farsi carico. La malattia cronica e incurabile è una variabile differente, che mette il genitore davanti ad ulteriori sfide di cui, non sempre, è in grado di farsi carico. Chi punterebbe il dito verso un genitore senza lavoro, con gravi problemi personali, che decide comunque di mettere al mondo un bambino non ricorrendo all’aborto, ma di non farsene carico lasciandogli la possibilità di essere adottato e cresciuto con maggior supporto? La retorica dei movimenti per la vita questo ci racconta: se non puoi prenderti cura di tuo figlio non rinunciare a metterlo al mondo, ma affidalo a chi può prendersene cura.
Quindi esistono due pesi e due misure per chi diventa genitore? Chi ricorre alla fecondazione assistita o all’adozione non può sperare, come tutti i genitori “naturali”, desiderare di avere un figlio sano? Chi ricorre alla fecondazione assistita dev’essere pronto a tutto, anche ad affrontare ciò che non può materialmente o psicologicamente affrontare? Lo stigma sociale che ancora colpisce chi mette il “pubblico a casa” di fronte alle difficoltà insite all’essere genitore è tale da ridurci ad attaccare chi, molto probabilmente, ha portato avanti una scelta ritenendola nel miglior interesse del bambino. Eppure, nel momento in cui accadono altre disgrazie, come quelle riportate ogni tanto dalla cronaca, tutti si stringono nel cordoglio. Dimentichiamo in fretta però, troppo in fretta, cosa significhi per una famiglia farsi carico della disabilità, la solitudine connessa, le difficoltà economiche. Forse perché è più semplice limitarsi al racconto struggente e risolvere in pochi commenti le nostre crisi di coscienza. Fino al prossimo caso mediatico.
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