Questioni di genere

Storie di pacche sul culo

29 Novembre 2021

A 21 anni ho fatto per un’estate la barista in discoteca. Ero in Inghilterra, a Oxford, e mai avrei pensato di ricevere così tante manate sul culo nella cittadina che tutti associamo alle più alte vette della cultura. Mentre andavo da una sala all’altra del locale, mentre ballavo nei momenti di libertà tra un turno e l’altro, le mani erano talmente tante e così costanti che a un certo punto smisi di farci caso. Non volevo rovinarmi la serata, non volevo rovinarmi l’estate. E quella sera in cui il ragazzo turco che frequentavo fece una scenata all’ennesima mano morta, pensai “Che esagerato”.

 

Più o meno in quegli stessi anni andavo con la famiglia in vacanza nelle Dolomiti. Avevo un gruppo di amiche con cui la sera uscivamo, assieme ai pochi ragazzi della zona, più che altro maestri di sci in ferie. Una volta, mentre ci riaccompagnavano a casa in auto dopo una serata in cui mi ero oltremodo annoiata e in cui avevo faticato a integrarmi con le altre persone, uno dei ragazzi mi congedò con una sonora e plateale manata sul culo mentre uscivo dalla macchina. Ricordo frammenti di disagio e una sensazione a cui non seppi dare un nome: sapevo solo, con chiarezza, che in quel momento ero in minoranza. L’autore della manata e i suoi compagni non avevano alcuna confidenza con me, anzi credo ci fosse una sorta di antipatia reciproca. Forse quella manata era un modo per rimettermi al mio posto, di farmi capire di “non tirarmela”, o forse no. Di sicuro nessuno ci fece caso e non sentii di poterne parlare a nessuna delle amiche, o a mia sorella, perché già sapevo che mi sarei presa dell’esagerata.

 

Una volta in autobus, in piedi davanti alle porte di uscita, una mano mi si posò con sicurezza su un gluteo. Non mi voltai nemmeno. Avevo delle scarpe pesanti, con dei grossi tacchi che usai per schiacciare, in modo ripetuto e paziente, il piede della persona dietro di me, che infatti non fiatò né oppose resistenza. Sapevo che se avessi parlato e mi fossi lamentata ad alta voce sarei diventata io “la signora” che fa casino. Tutti intorno a me si sarebbero finti morti. Avrei fatto la solita figura dell’esagerata.

 

Quattro estati fa, al supermercato, davanti al banco frigo degli yogurt, un uomo mimò il gesto di strizzarmi il seno con le due mani. Gli dissi “Vaffanculo” mentre mi avvolgeva lo schifo. Lui mi guardò con cattiveria e mi disse “Stai attenta”, alzando un po’ verso di me la bottiglia di vetro che teneva in mano. Intendeva dire che poteva seguirmi e all’occorrenza usare quella bottiglia per sbattermela in testa o altro? Non lo so, ma al disagio si aggiunse la paura. Tornata a casa mi precipitai a scriverne sul gruppo Facebook di femministe – un bellissimo gruppo privato con intellettuali, giornaliste, personalità di spicco del femminismo mediatico contemporaneo – e una delle moderatrici mi riprese pubblicamente: quello era un gruppo di discussione, non uno sfogatoio. Lamentatami della scarsa empatia ricevuta in un momento di fragilità, oltretutto in un “luogo” di sorellanza, venni accusata di essere “passivo-aggressiva” e invitata a lasciare il gruppo. Si vede che avevo esagerato.

 

L’anno prima, sempre in una caldissima giornata d’estate, incrociai per strada un uomo che si dirigeva al centro di preghiera musulmano in una via adiacente alla mia, che mi apostrofò con «Copriti, crei disturbo». Scioccata, gli risposi di vergognarsi, di non permettersi, ma ero senza fiato. Non me l’aspettavo, mi aveva decisamente colta alla sprovvista. Entrata nel negozio a fianco raccontai, arrabbiatissima, la scena, e tutti fecero finta di non sentire. Feci insomma la solita figura da “signora un po’ agitata che crea disturbo”. Ne scrissi su Facebook, e molti dei miei amici progressisti di sinistra (come me) ebbero più fretta di scrivere “not all Muslims” (come se a me in quel momento fosse importato qualcosa della fede di chi mi aveva aggredito) che di dimostrarmi solidarietà. Uomini e donne. E ci fu chi mi ricordò che io, forte e sempre con la risposta pronta, di certo avrei dimenticato la cosa in un attimo. In pratica, in molti mi invitavano a non esagerare.

 

Quando reagiamo, quando non reagiamo, quando la cosa ci ferisce a fondo o quando scegliamo di farcela scivolare via, quando nessuno vede e sente o quando tutti intorno si fingono morti, quando ne parliamo con una persona cara, o cerchiamo il conforto di chi ci sembra intellettualmente e umanamente affine, ma non lo troviamo, quando ne scriviamo e sottolineiamo certi aspetti, certi dettagli, certe minuzie, certe sensazioni a volte chiare e a volte incomprensibili a noi stesse, quando cerchiamo di dire che non sempre è solo la cosa in sé, ma è il riverbero e l’eco di tutte le altre cose e di tutte le altre volte e di tutta una cultura che ci ha soffocato e ancora ci soffoca, per favore, aspettate un attimo prima di dirci “Che esagerata”.

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