Costume
Silvia Romano e il sessismo all’italiana
Dopo 18 mesi di prigionia Silvia Romano scende dall’aereo che l’ha riportata a casa. Saluta, sorride, dichiara che è stata forte, ha resistito, che sta bene, con la testa e con il corpo e che ha solo voglia di stare con la sua famiglia. Indossa sopra i vestiti il velo islamico. Il Giornale titola “Islamica e felice. Silvia l’ingrata”, Libero non è da meno con il suo “Abbiamo liberato un’islamica”. A fare da coro, anzi da prologo, a queste uscire stampa una nutrita schiera di leoni da tastiera che, dai primi lanci delle agenzie hanno incominciato a domandarsi quanto sia costata la liberazione della cooperante, per poi rincarare la dose con aggressioni verbali e illazioni che, forse, non avrebbero rivolto neppure ai rapitori. Ignoranza? Malafede? Viene da chiedersi cosa sarebbe successo se dall’aereo fosse sceso un cooperante. La barba lunga per i mesi di prigionia, la tunica addosso. Forse qualcuno si sarebbe fatto qualche domanda, forse avrebbe lasciato correre, pensando ad un fatto accidentale o alla necessità, per non finire ammazzato, di mostrare rispetto per le leggi dello stato islamico. Perché sarebbe bene ricordare, in ogni momento, che Silvia è stata rapita nel contesto di una dittatura confessionale, dove la scelta di fede non è mai qualcosa di privato, ma si gioca sul filo della sopravvivenza. Anche quando non viene formalmente imposta con un mitra spianato.
Silvia però ha fatto tutto ciò che la narrazione maschilista italica non si sarebbe aspettata (e non ha quindi gradito): è apparsa serena, sorridente, non ha pianto, ma ha dichiarato la sua forza a parole e nei gesti tranquilli con i quali si è rivolta alla stampa. Ha ringraziato, non ha proferito una sola parola d’odio o di risentimento. Eppure, in questi mesi, deve aver avuto ottime ragioni per provarne, perché nessuno, nemmeno chi gode di ogni diritto, di ogni comodità – cosa che sicuramente non è toccata a Silvia – è felice di perdere la sua libertà. E almeno questo dovremmo averlo capito come paese, almeno stando alle lamentele che ogni giorno leggiamo, su ogni mezzo, contro la nostra dorata reclusione da pandemia. Invece non abbiamo imparato nulla e così si sprecano i commenti contro chi non appare abbastanza provato, abbastanza sofferente da “meritare” la libertà. Qualcuno ha anche avuto l’ardire di paragonare l’Islam al nazismo, chiedendosi se un detenuto in campo di concentramento sarebbe mai tornato a casa vestito da nazista. Il commento non è neppure necessario, fosse anche soltanto per l’assoluta ignoranza delle conseguenze materiali dei maggiori traumi che subiscono le persone rapite e costrette in prigionia. D’altra parte siamo lo stesso paese che, puntualmente, trasforma la vittima di violenza in soggetto attivo delle sue sorti: “Certo che però un po’ se l’è cercata”, “Poteva benissimo lasciarlo no? Se è rimasta…”.
Viene da domandarsi, ancora, quale sarebbe stata la reazione degli stessi media, delle stesse persone, se Silvia fosse scesa dall’aereo indossando un crocefisso al collo e ringraziando la Madonna per averla protetta durante questi mesi. Immaginate la scena e immaginate i commenti. “La fede mi ha salvata”. Plauso di pubblico e critica. Peccato che questa sia la fede sbagliata.
Silvia però non ha ringraziato né la Madonna né Maometto, ma sé stessa, con una rivendicazione bellissima di spirito e forza morale: sono stata forte. Anche questo spaventa l’italico spirito maschilista: una donna che non mostra la debolezza che, tradizionalmente, le viene attribuita. Silvia è stata salvata dallo Stato, ma si è anche salvata. Avrebbe potuto cedere, lasciarsi andare, abbandonare la speranza, ma si è salvata perché è stata forte e ha resistito 18 mesi (non due mesi in casa, fra le proprie comodità e lamentandosi costantemente) in mano ai suoi rapitori.
Mostra la sua nuove fede – un fatto privato, di cui nulla dovrebbe interessarci in questi frangenti – e per questo viene criticata da chi, solo poche settimane fa, accusava lo Stato di violare il diritto di culto vietando ancora per qualche settimana lo svolgimento delle messe per evitare il propagarsi della pandemia. Se non è schizofrenia questa. In ultimo l’uso della parola ingratitudine per qualificare il comportamento della ragazza. Viene da domandarsi in che modo avrebbe dovuto mostrarla a beneficio delle telecamere e, ancora, che cosa significhi, nelle parole dei commentatori, questo termine. L’abbraccio ai famigliari, lo scambio con le autorità presenti, il grazie nella breve dichiarazione alla stampa non sono segno di gratitudine? E davvero possiamo parlare di gratitudine necessaria di fronte a un atto che ha semplicemente ristabilito il diritto di una persona? Per restare nel nostro limitatissimo orticello saremo “grati” al Governo quando ci consentirà di riacquisire i nostri diritti individuali al termine (se e quando ci sarà) dei provvedimenti per la quarantena o semplicemente si tratterà della riaffermazione di un nostro diritto legittimo? Chiederemmo a un soldato salvato da un campo d’internamento, a un professionista rapito nello svolgimento del suo lavoro e poi liberato di mostrare gratitudine? E in che modo avrebbe dovuto mostrarla Silvia? Con le lacrime? Con una dichiarazione più articolata? Levandosi il velo e rinnegando il suo percorso personale?
Non sarebbe comunque bastato, perché il racconto della donna, per una parte di questo paese, è quello del sesso debole, della fragilità fisica, emotiva e spirituale, del bisogno di cura paternalistica che non prevede emancipazione. La storia mediatica di Silvia può insegnare molto alle giovani (e meno giovani) donne di oggi: se di fronte alle difficoltà della vita, anche molto gravi, reagirete con forza d’animo, dignità e considerando un vostro diritto ciò che gli altri spacciano per una concessione o un regalo (come nel caso della libertà dalla prigionia) non vi sarà perdonato. È il prezzo da pagare, ma sarete donne libere.
(ph. credits Open)
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