Questioni di genere
Sei donne su 10 aggredite sul posto di lavoro almeno una volta in carriera
Il sessanta per cento delle donne europee ha subito molestie, abusi o violenze sessuali sul posto di lavoro, almeno una volta nel corso della carriera. Lo rivela l’indagine condotta da Ifop nei cinque Paesi più grandi dell’Unione europea (Francia, Germania, Spagna, Italia e Regno Unito) per conto della Fondazione Jean-Jaurès e della Feps, la Fondazione dei progressisti europei. Il rapporto è stato commissionato a due anni dallo scoppio del caso Weinstein (5 ottobre 2017) e della nascita dei movimenti MeToo e ha preso in considerazione un campione di 5.026 donne di almeno 18 anni – circa mille per ciascuno dei Paesi considerati – a cui è stato somministrato un questionario online tra l’11 e il 15 aprile 2019.
Il rapporto aggiorna i dati sul tema, l’ultimo studio europeo risale al 2012, e restituisce la misura dell’entità di violenza sessuale e di genere subita dalle donne europee sul posto di lavoro.
Gli attacchi sessuali e di genere, ripetuti o meno, si legge nel rapporto, “sono significativamente più alti in Spagna (66 per cento) e in Germania (68 per cento)”, due paesi che hanno adottato diverse politiche proattive per affrontare il problema. La Spagna ha investito un miliardo di euro per il Patto di Stato contro la violenza di genere mentre la Germania nel 2013 ha adottato un piano d’azione con 130 misure specifiche.
Se i dati complessivi offrono uno spaccato del fenomeno nel complesso della storia lavorativa delle donne intervistate, tuttavia le molestie in ambito professionale sono di estrema attualità. Negli ultimi dodici mesi il 21 per cento delle donne è stata vittima di una qualche forma di violenza di genere o di violenza sessuale. E in dettaglio per paese, questo tasso evidenzia ampiamente una maggiore prevalenza di tale violenza in paesi latini come la Spagna e l’Italia, “in particolare per le interazioni che possono essere culturalmente associate alla seduzione (osservazioni su aspetti fisici, frasi oscene, inviti a cena, regali imbarazzanti)”.
Lo studio si è concentrato su alcuni fattori che fanno emergere una maggiore probabilità di esposizione alle molestie: la giovane età, il fatto di vivere in contesti urbani, l’appartenenza a minoranze sessuali o religiose, l’essere già state vittime di violenze o abusi sessuali, un ambiente di lavoro prevalentemente maschile, regole sull’abbigliamento che impongono di mettere in evidenza parti del corpo come il petto e le gambe; sono tutti elementi che aumentano i rischi di abusi a sfondo sessuale o discriminazioni di genere. In particolare, si legge nel rapporto, “l’analisi dettagliata del profilo delle vittime conferma la correlazione tra abbigliamento e molestie e più specificamente l’idea che l’imposizione di un abito “sexy” accentui i rischi della violenza sessuale”. Di tutte le categorie di lavoratrici, le donne soggette a regolamenti che impongono l’uso di abiti da lavoro che ne evidenzino le forme o parti del corpo sono quelle che registrano il tasso più elevato – 33 per cento – di esperienze sessuali forzate o indesiderate. “In termini di politiche pubbliche, ciò solleva il problema dell’abbigliamento da lavoro di genere che può accentuare la pressione sessuale sulle donne rendendo stereotipati gli “oggetti del desiderio”, specialmente in settori come l’ospitalità e la ristorazione dove le dipendenti sono a diretto contatto con il pubblico.
«La cosa che più salta agli occhi è che le vittime sono ragazze giovani all’inizio della propria carriera, così come le donne che lavorano a casa, le cosiddette badanti (caregivers)», commenta Alessia Centioni, fondatrice e presidente di EWA – European Women Alliance, un’associazione che promuove l’impegno pubblico delle donne europee. «Questo è il quadro dell’ineguaglianza di genere che si traduce in abuso o molestie sessuali. Come dimostra il rapporto l’abuso di potere nasce da forme di diseguaglianze sociali. La molestia rappresenta lo strumento principale del patriarcato e si manifesta attraverso la violenza fisica o psicologica».
I risultati dell’indagine smentiscono il luogo comune secondo cui la vittima di abusi sessuali è professionalmente in posizione subordinata rispetto all’aggressore. L’unica situazione in cui una percentuale significativa di donne, il 34 per cento, riferisce di essere stata molestata da un superiore riguarda le pressioni psicologiche per ottenere un atto sessuale in cambio, ad esempio, di una promozione o di un’assunzione. Altre forme di violenza sono fatte da colleghi che non esercitano autorità gerarchica – osservazioni imbarazzanti sul fisico o commenti di connotazione sessuale – o da clienti o fornitori che prediligono manifestarsi con regali fastidiosi o imbarazzanti.
Le donne riferiscono di essere sottoposte a diversi tipi di molestia. La violenza verbale o visiva è l’attacco più diffuso sul posto di lavoro, dai fischi ai gesti grossolani, ma anche osservazioni non richieste sulla linea o sull’abito. Ma la “pressione sessuale” sul lavoro è lungi dall’essere ridotta alle osservazioni sessiste o alle pressioni psicologiche. Molte donne hanno riferito di essere state aggredite fisicamente: il 14 per cento ha avuto molteplici incontri fisici leggeri o addirittura di violenza sessuale nel senso stretto del termine; il 18 per cento di loro ha subito violenza sessuale almeno una volta durante la loro carriera e toccata in una zona genitale o erogena.
«La cosa più sconcertante», continua Centioni, «è che tutti i giorni questi casi vengono relegati a fatti di cronaca mentre sono piaghe sociali e culturali. Quasi dovessimo accettare che la donna sia sottoposta alle prevaricazioni che l’uomo le vuole infliggere».
Infine, il sondaggio Ifop dice che solo una minoranza delle vittime adotta una strategia attiva quando è costretta a confrontarsi con situazioni di abuso. Una percentuale tra il 9 e il 16 per cento si rivolge ai superiori o ai sindacati, dato che sale intorno al 27 per cento nei casi di donne giovani. Un divario spiegato con la minore propensione delle donne più anziane a entrare in conflitto con la gerarchia dell’organizzazione di cui fanno parte sia per motivi di carattere economico, sia culturale. Ma, in generale, le dimissioni rimangono nella maggior parte dei casi l’unica opzione praticabile per rispondere alla violenza di genere sul luogo di lavoro.
«Fa impressione l’ampiezza del fenomeno», conclude Centioni, «che è uniforme in tutti i Paesi europei. In Italia sembra più basso rispetto alla Germania o alla Spagna, ma non credo ci sia nulla per cui consolarsi, anche perché in Italia c’è tantissimo sommerso e non si tratta di fare le classifiche o sentirsi sollevati perché i tedeschi abusano di più degli italiani. Io però a questo punto per rendere plasticamente la situazione e farla comprendere a tutti, farei un sondaggio simmetrico, chiedendo agli uomini europei quante volte siano stati oggetto di molestie sessuali sul luogo di lavoro. E poi metterei i risultati uno a fianco all’altro».
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