Olimpiadi
Requisiti minimi per lo sport e per il giornalismo
Queste Olimpiadi stanno facendo emergere un amaro dato per il giornalismo (italiano ed estero): il qualunquismo da chiacchiera del bar ha permeato a tal punto la nostra cultura di base che i titolisti di testate nazionali di primo piano non si vergognano a utilizzare come apertura dei pezzi frasi offensive che nemmeno alla festa dell’uva in bocciofila salterebbero fuori. O forse non si rendono nemmeno conto, ed è anche peggio.
Delle due l’una: o questi professionisti vanno a lavorare in redazione completamente ubriachi, oppure ci siamo assuefatti al vuoto culturale al punto che, anche per quanto riguarda professioni per le quali l’utilizzo dell’esercizio critico (o banalmente del buonsenso) dovrebbe essere un pre-requisito minimo, questo elemento non viene reputato fondamentale.
E così può capitare che di un’atleta argento olimpico si dica che ha un culo degno dell’oro, che le arciere della nostra nazionale sono cicciottelle o che – e questo avviene in America – un commentatore della NBC dichiari che i genitori adottivi di un’atleta non siano in fondo i suoi veri genitori. Ciò che è certo, al di là dell’evidente e sempre presente componente sessista di questi interventi che – guarda caso – vedono sempre atlete donne come oggetto della “chiacchiera”, è che il giornalismo sportivo rispecchia in modo piuttosto puntuale una tendenza, piuttosto diffusa oggi, a mancare il punto della questione e, quindi in questo caso, il senso della notizia.
Da sempre infatti le notizie vengono corredate da elementi che possano attirare l’attenzione del lettore: il giornale deve vendere. Ma un buon giornale dovrebbe inserire elementi “attrattivi” di approfondimento, qualche dettaglio non noto al grande pubblico, fotografie di qualità dell’evento… L’oggetto di un articolo sportivo dovrebbe essere la performance atletica. A un quotidiano d’informazione non dovrebbe interessare la vita privata dell’atleta o se ha un bel culo o meno: dovrebbe essere materia dei settimanali scandalistici. D’altra parte non dovrebbe nemmeno interessarci la nazionalità di chi commette un reato, ma se mai la denuncia del fatto, non dovrebbe interessarci la forma fisica di un ministro, se mai se approccia in modo serio il suo compito istituzionale.
Ma “alla gente” queste cose interessano e i giornali, che forse un tempo avevano qualche remora in più nell’accondiscendere completamente alle richieste del pubblico (perché ogni professione ha una sua etica e scopo principale del lavoro di un giornalista dovrebbe essere il fare informazione e non il numero dei click morbosetti), si adeguano.
E così siamo quotidianamente costretti a subire titoli diseducativi e dannosi per la cultura di base. Quasi completamente assuefatti non ci rendiamo conto che, ad esempio, definire “dramma della gelosia” e non “omicidio per futili motivi” l’ennesimo femminicidio fa male alla nostra società, trasmettendo un messaggio sbagliato. Non ci rendiamo conto che chiamare cicciottelle delle atlete che hanno fatto della loro vita di sacrifici un esempio per tante ragazze che amano lo sport fa male. Non ci rendiamo conto che l’aspetto esteriore non è e non deve essere il pre requisito di un’atleta, che lo stato emotivo deviato di un assassino non è una scusante, che c’è un limite all’esposizione della vita privata di una ginnasta, che ha scelto di mostrare al mondo le sue capacità atletiche e non le vicende della sua infanzia. Non ci rendiamo conto che ci sono limiti alla nostra morbosa curiosità e “voglia di commento” e che, allo stesso tempo, ci sono requisiti minimi per ciascuna professione. Per quella del giornalista dovrebbe essere l’onestà intellettuale. E di questo, sì, dovremmo lungamente discutere.
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