Questioni di genere
#Quellavoltache, perché quella volta sia l’ultima
#Quellavoltache “ballavo alla festa di un festival e un fumettista ospite mi ha buttato a terra e mi è montato sopra per simulare una scopata”.
#Quellavoltache “a 20 anni, con mio padre sotto terra da 5 mesi, il mio capo si è permesso di fare avance sessuali pesanti, al punto di chiudermi in una camera d’albergo”.
#Quellavoltache “andai in polizia x denunciare un molestatore. “Ah, lo conosciamo, promette ma poi non fa, tranquilla”. E la chiusero lì.”
Tutte le volte, insomma, in cui qualcuno ci ha molestat* o ha – in vari modi, in vari livelli, perché è dalla tolleranza del piccolo che nasce e cresce l’humus che permette il grande – abusato di noi. E noi, per paura, per vergogna, per senso di colpa, non abbiamo saputo o voluto denunciare. Tutte le volte in cui siamo stat* vittime silenti, impaurite, di giochi di potere (e il potere, è bene ricordarlo, non sono soltanto soldi e contratti), con il nostro corpo preso in ostaggio da chi stava o si era posto un gradino al di sopra di noi, per posizione sociale, per forza fisica, o semplicemente per sesso.
#Quellavoltache è un progetto nato da un’esigenza collettiva, all’interno di un gruppo chiuso su Facebook. Dopo lunghe discussioni nate dal caso Weinstein, ma soprattutto dalle reazioni, dalle battutine e dai commenti sagaci che abbiamo letto sui social o addirittura sui titoli di certi giornali. Un’ondata crescente e apparentemente inarrestabile di victim blaming: quel fenomeno paradossale per cui la situazione si ribalta, e le vittime si trovano ad essere colpevolizzate – perché non hanno denunciato prima, perché non hanno saputo dire no, perché hanno provocato, perché in fondo ci stavano, perché si sa che le è servito, perché se sono stat* zitt* allora, perché se ci fossi stat* io avrei reagito con un bel calcio, perché, perché, perché… – innescando una spirale di vergogna per cui altr* ragazz*, donne e uomini sceglieranno di stare in silenzio, di rinchiudersi nel proprio senso di colpa, di sentirsi sol* con il proprio trauma.
L’idea, si diceva, è venuta da lì. L’ha avuta per prima Giulia Blasi, ne abbiamo discusso, qualcun* di noi ha iniziato a raccontarsi, a raccontare. Storie piccole o enormi, di ieri e di oggi. Violenze psicologiche o fisiche, scampate o subìte. E il come, il perché dei silenzi successivi. Come ha sintetizzato bene la stessa Giulia: “Storie di molestie, avance pesanti, situazioni in cui ci siamo sentite minacciate o poco al sicuro e sapevamo che nessuno ci avrebbe creduto”. Una narrazione collettiva, su varie piattaforme – dai blog individuali a Medium, da Twitter a Facebook, fino a “contenitori” come pasionaria.it o gaypost.it che si sono offerti di raccogliere e pubblicare in maniera anonima le testimonianze più difficili e a rischio. Una narrazione accomunata da quell’hashtag, #quellavoltache – anche se non è una volta sola, anche se scavando insieme nella memoria ne sono venute a galla, per molt* di noi, tante, troppe, simili l’una all’altra eppure ciascuna drammaticamente diversa, ciascuna che non avrebbe dovuto ripetersi né accadere, mai.
L’abbiamo lanciato in quattro gatti, quasi in sordina, e pian piano le storie sono arrivate da sé, come una valanga silenziosa. Sono racconti spontanei: chi li affida alla Rete, o a chi possa pubblicarli per conto loro in maniera anonima, sceglie liberamente se e come farlo, quanto dire e come dirlo. Perché lo facciamo? Perché mettere i pensieri lì, nero su bianco, può aiutare. Perché è arrivato il momento, forse, di condividere anche quegli episodi che non abbiamo mai raccontato prima perché – come ha scritto benissimo un’amica – “non hanno nemmeno la dignità di storie perché sono piccole, perché è capitato a tutte, perché chi ti credi di essere, perché sembra di volersi mettere in mostra”. Perché ci sono uomini, compagni, amici che, attoniti, ci hanno detto – e prendo in prestito, ancora una volta, parole altrui – “i maschi “normali” vivono nell’illusione che le violenze e le molestie siano rare e non è così”. Perché la narrazione collettiva, anche e soprattutto quella dal basso (e in questo senso i social e la Rete rappresentano, se usati in modo consapevole, una grande risorsa), è un primo passo per rompere il silenzio, per provare a liberarsi dal paradosso dei sensi di colpa e della vergogna (anche quella, eventualmente, di aver taciuto). Per capire, insieme, che dalla cultura dello stupro – quella che “giustifica e minimizza le violenze e colpevolizza le vittime” – si può provare a uscire. Ma per farlo, oggi più che mai, è necessario sapere che non si è soli.
PS: tutte le testimonianze tra virgolette sono reali, prese dal flusso di narrazione collettiva delle prime ore del progetto. Le rintracciate seguendo l’hasthag sulle varie piattaforme.
PPS: l’uso dell’asterisco è voluto (anche se personalmente, confesso, non lo amo da impazzire) perché, come in molti ci hanno ricordato, gli abusi di cui vogliamo parlare – e la cultura del silenzio – sono un problema che non colpisce soltanto le donne. Anche se in questi giorni, è prevalentemente di donne che stiamo parlando.
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