Agroalimentare
Fragole, pomodori e molestie sessuali sulle lavoratrici
Vittoria, provincia di Ragusa, giorni nostri. Qui, in una cittadina che conta poco più di 60mila abitanti, il caporalato continua a regolare gran parte del mondo dell’agricoltura. Il territorio siciliano, tristemente noto per vicende di cronaca che raccontano di sfruttamenti e soprusi compiuti nei confronti di braccianti, la maggior parte stranieri, non poteva non essere esplorato, indagato e narrato dalla giornalista e fotografa Stefania Prandi nel suo Oro rosso. Fragole, pomodori, molestie e sfruttamento nel Mediterraneo.
Il libro è il frutto di due anni di ricerche sul campo nel Sud Italia, in Spagna e in Marocco, tra i maggiori esportatori di ortaggi e frutta in Europa e nel mondo. Un lungo viaggio che parte da Palos de la Frontera, comune di 8mila anime in Andalusia, il più grande giacimento di fragole e frutti rossi d’Europa con 10mila ettari di serre, concentrando lo sguardo sulle condizioni del lavoro femminile.
Le braccianti rumene, bulgare, polacche, marocchine lavorano in serre dominate da alcune lavoratrici che svolgono la funzione dei kapò: alcune su invito dei caporali controllano le altre assicurandosi che non si lamentino troppo delle pessime condizioni in cui sono costrette a lavorare. Istituzioni e forze dell’ordine girano spesso la testa dall’altra parte. Nel frattempo, nella zona, è aumentato il tasso di interruzioni di gravidanza, con il 90% di richieste fatto proprio da immigrate. Perché la differenza tra i braccianti e le braccianti sfruttati/e oggi è che le donne, oltre a guadagnare di meno, in cambio devono offrire anche se stesse e il loro corpo. Se gli uomini sono pagati poco, maltrattati e malmenati, le donne sono pagate pochissimo, anch’esse costrette a turni estenuanti, e vengono molestate sessualmente e ricattate.
Stefania Prandi ci svela così il mondo in cui vivono queste donne che raccolgono e confezionano quotidianamente il cibo che arriva sulle nostre tavole, dalle fragole, alle ciliegie, ai pomodori. Quell’oro rosso di cui ci nutriamo, quell’oro rosso che produce ricchezza per pochi e sfruttamento per molti. La giornalista ha incontrato sulla sua rotta centinaia di braccianti e diversi esponenti di associazioni, sindacati ma nessun datore di lavoro. Il libro ci restituisce anche la forte solitudine vissuta dalle famiglie e soprattutto dei figli delle braccianti, spesso costretti a trascorrere intere giornata a casa da soli, molte volte senza poter studiare e andare a scuola. In Spagna, come in Italia.
Guardando in casa nostra, proprio a Vittoria, nel ragusano, arrivano ogni anno migliaia di famiglie romene che poi finiscono per lavorare nelle tantissime serre in cui si coltivano pomodori ciliegino esportati in tutto il mondo. Queste stesse famiglie vivono in vere e proprie baracche, nella fitta campagna, pagate come appartamenti normali ma senza luce e acqua calda.
In Sicilia, come in Puglia se vuoi lavorare nel migliore dei casi devi stare zitta. I caporali (gli schiavisti, si può dire?) controllano le braccianti e pretendono con la forza rapporti sessuali. Rosaria Capozzi, responsabile del progetto Aquilone di Foggia, racconta che «su dieci datori di lavoro della nostra zona, non voglio dire sette, ma cinque ci provano e pesantemente, più con le straniere che con le italiane perché lo ritengono quasi uno ius primae noctis (il diritto della prima notte) odierno». E le violenze non vengono granché denunciate, perché subentra la disperazione, il bisogno, il senso di colpa, la paura per tutte, italiane o straniere.
Grazie alla legge contro il caporalato, approvata a ottobre 2016, sono state aperte inchieste e condannati altri sfruttatori ma il libro ci mette di fronte anche a quegli imprenditori che non hanno affatto apprezzato la legge pur condannando il caporalato, perché “questo è un settore in cui serve flessibilità e non rigidità”. Giusto per la cronaca, lo scorso aprile il senatore Luigi D’Ambrosio Lettieri, passato dal Popolo delle Libertà a Forza Italia e ora in Noi con l’Italia («Noi siamo con l’Italia e l’Italia è con noi») ha presentato una mozione, sottoscritta da 33 parlamentari, per ammorbidire la legge anti-caporalato.
Il viaggio e il libro di Stefania Prandi si concludono in Marocco. Qui, a Souss-Massa, a un’ora di distanza dalla turistica Agadir, la giornalista raccoglie le testimonianze di lavoratrici per lo più marocchine. Molte sono giovani donne che lasciano i lori paesi perché hanno avuto un figlio fuori dal matrimonio e che quindi sono ghettizzate. Le marocchine non si ribellano e non hanno grandi pretese, quindi le grandi aziende agricole gestite da olandesi, francesi e spagnoli, le preferiscono. Nel 2013 un rapporto dell’Association main solidaire (Ams) ha registrato 1.910 violazioni del codice del lavoro, incluse molestie, stupri e licenziamenti senza giusta causa.
Il tema al centro delle pagine di questo testo necessario, scrive l’autrice nelle sue conclusioni, è la discriminazione, il ricatto, la sopraffazione, la violenza fisica e verbale sul lavoro. Una violenza certamente di genere come sottolineato nel libro, ma che ha radici antiche e per chi scrive forse sta più dalle parti dello schiavismo. La manodopera straniera costa meno. Non solo nel settore agroalimentare. Nei luoghi percorsi e approfonditi da Prandi, però, vige l’idea e la regola che sia lecito chiedere e pretendere con la forza sesso in cambio di lavoro e di un salario ingiusto e indegno; un abuso che non viene compiuto nei confronti dei braccianti maschi, anch’essi – come raccontano inchieste e notizie – comunque sfruttati.
Di capolarato si parla quando i grossi fatti di cronaca invadono le prime pagine dei giornali e risuonano nelle case degli italiani attraverso i telegiornali. Come fu quando nel 2010 l’Italia ci si accorse tutti delle condizioni in cui vivevano e lavoravano i braccianti africani nella piana di Rosarno, in Calabria, in quel caso sfruttati da un’economia agricola influenzata dal potere della ’ndrangheta. In poche ore folli e violente Rosarno venne “sgomberata” e il problema soltanto apparentemente ”risolto”. Andrea Segre, nel suo documentario “Il Sangue Verde”, raccolse le testimonianze dolorose ricostruendo la vicenda e la storia dei protagonisti, dei lavoratori, a pochi giorni dall’accaduto.
Nel nostro paese, non c’è un solo italiano che lavorerebbe da mattina a sera in condizioni estreme per venti euro al giorno, con la sola possibilità di dissetarsi con quel che resta delle arance scartate. Di quel documentario ricordo con precisione le parole di uno di quei braccianti: «Devi capire che come tu provi dolore, provo dolore anche io. Tutti gli esseri umani hanno un solo sangue, rosso. Nessuno ha il sangue verde». Nemmeno le donne, continuamente esposte al rischio di subire un gradiente di violenza in più per il fatto stesso di essere donne.
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Stefania Prandi,
Oro Rosso (Settenove, 14 euro)
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