America

Non si perde in quanto donne: la sconfitta di Hillary e la politica al femminile

17 Novembre 2016

Chiunque pensi che sarà il femminile a salvare il mondo si augura che la sconfitta di Hillary spinga finalmente le donne a fare politica comportandosi da femmine e non più da donne travestite da uomini.

La sconfitta di Hillary Clinton alle ultime presidenziali americane ha riacceso il dibattito sulla questione “femminile e politica”. Nel variopinto panorama delle analisi dei primi giorni dopo il voto, nel tempo dell’ “elaborazione del lutto” causato dalla (inaspettata?) vittoria di Trump, in molti si sono dichiarati convinti che la Clinton abbia perso in quanto donna e in quanto donna “troppo poco donna”. Aggressiva, algida, inflessibile, eccessivamente determinata, Hilary avrebbe cercato di scimmiottare caratteri propri dell’agire pubblico maschile senza saperli compiutamente padroneggiare, restando schiacciata a “mezza via” fra un approccio “da uomo” alla campagna elettorale e la sua appartenenza al mondo delle donne. Poco gradita all’una e all’altra sponda. Osservazioni di questo tipo, anche quelle fatte con poca analisi alle spalle, nascondono sempre un fondo di verità e, spenti ormai i riflettori mediatici sulla prima tornata di commenti, forse è tempo d’interrogarsi sulla questione. Sgombro il terreno: non sono convinta che la Clinton abbia perso in quanto donna e non sono convinta che, in merito al genere, avrebbe potuto agire in modo molto diverso in campagna elettorale.

Partiamo da un dato anagrafico: Hilary è nata nel 1947. Ha vissuto gli anni della contestazione e della seconda ondata del femminismo, il cosiddetto femminismo “radicale”. Chi, ad esempio, paragona Hilary a Michelle, first lady uscente, molto amata per la sua comunicatività ed empatia, dovrebbe sempre considerare i vent’anni che separano queste due donne. La Clinton, dopo gli anni di formazione, ha iniziato la sua carriera lavorativa e politica in un mondo in cui la declinazione del successo era coniugata tutta al maschile. “Comportarsi da uomo”, “Essere una donna con le palle”, “Essere priva di debolezze femminili” come requisiti per l’ascesa in campo lavorativo e, a maggior ragione, in ambito politico, territorio maschile per tradizione. La scelta, per lei come per molte altre donne che volevano “giocarsela”, era fra l’adesione ad un modello che le avrebbe trasformate in virago o il mantenimento di uno status femminile percepito come semanticamente prossimo alla debolezza e all’instabilità. Inutile esplicitare la scelta di Hillary.

Ma torniamo ad oggi. Chi afferma che la sconfitta della Clinton sia stata una sconfitta di un certo tipo di “femminile” – quello che nega le differenze, che si plasma a partire da modelli maschili, che abbraccia un piano valoriale che è stato, in molti casi, alla base dell’esclusione delle donne dalla vita politica attiva – e che un più corretto approccio sarebbe quello di affermare una politica al femminile, basata su valori di accoglienza e maternage, sbaglia diagnosi e cura, ma non le premesse all’origine del male.

Fra uomini e donne – in politica e fuori – esistono differenze oggettive e, proprio per questo, insuperabili. Le critiche a Giorgia Meloni che, durante l’ultima campagna delle amministrative, ha deciso di non mettere in secondo piano il suo impegno politico rispetto alla gravidanza che stava portando a termine ne sono un esempio. Nessuno si sarebbe mai sognato di sostenere che un politico in procinto di diventare padre potesse essere inadeguato allo svolgimento del suo ruolo perché – giustamente – “preso” dal suo ruolo di genitore. Sono le stesse critiche che, di tanto in tanto, nascono nei confronti delle donne che, come spesso avviene ad esempio al Parlamento Europeo, portano in aula i figli per poterli allattare. A latere di queste differenze oggettive esiste poi un sottobosco di differenze “falsamente oggettive”, che tuttavia fanno parte di un immaginario comune: le donne instabili a causa dei loro sbalzi d’umore dettati dagli ormoni, le donne inaffidabili in quanto poco razionali e più propense a lasciarsi cogliere dalle emozioni, le donne incapaci di assumere un ruolo di comando per mancanza di rigore. Negare le prime e negare le seconde sarebbe in ogni caso un errore: nessuno può infatti contestare che per una donna, in alcuni casi, la conciliazione fra vita privata e pubblica sia materialmente più complessa, nessuno può contestare che il pensiero comune (anche se fondato su presupposti sbagliati) abbia una profonda influenza sulla società e sia quindi a suo modo “vero”. Inoltre, negare questa realtà, porta al solo risultato di “appiattire”, secondo un modello portato avanti da alcune esponenti della prima ondata del femminismo, il femminile sul maschile. Se il modello dev’essere unico è assai probabile che sia quello interpretato dal maschio politico. Allora, potrebbe pensare qualcuno, è vero quanto afferma chi, come Massimo Gramellini, ritiene che per diventare “vincenti” le donne che scendono oggi in politica debbano abbracciare un modus operandi alternativo a quello dei colleghi uomini, improntato a valori e modalità relazionali tradizionalmente attribuite al “gentil sesso”: accoglienza, cura, pazienza, empatia, calore, intelligenza emotiva. Come se questi elementi, per una donna, fossero dati, come se facessero parte di un patrimonio comune trasmesso attraverso i cromosomi. Come se non potessero essere appresi o non potessero essere tanto maschili quanto femminili.

La giusta strada – forse – sta nel mezzo. A fronte dell’ennesimo scenario di contrapposizione valoriale e di genere, anche seguendo il pensiero di buona parte delle femministe della terza ondata, mi piacerebbe poter parlare di una rivalutazione non tanto dei caratteri (di pensiero e azione) femminili, ma di un pensiero di minoranza, attribuendo profondità storica a questo termine e non un valore nell’indice di merito.

Minoranza del femminile, dal punto di vista storico e culturale, significa che il patrimonio acquisito nel corso di centinaia di anni di subalternità non è andato cancellato all’affermarsi del diritto di voto o dell’emancipazione negli anni ’60 o della rivoluzione dei costumi degli anni ’70. Il portato femminile, così come quello delle minoranze razziali, religiose, filosofiche, è rappresentato da caratteri culturali e sistemi valoriali differenti e a volte alternativi rispetto a quelli sviluppati dalla maggioranza. Senza che questo abbia alcuna accezione di maggiore o minore bontà. Ed ecco che di fronte ad un sistema, quello politico, ancora oggi fortemente improntato su caratteri maschili, le “categorie” del femminile possono adattarsi – per spirito di sopravvivenza e volontà di affermazione – oppure provare ad affermare il proprio valore, ma senza alcuna garanzia di successo. Di fronte alla proposta di modelli comportamentali e di approccio alla politica differente, la reazione paternalistico condiscendente è in molti casi il male minore. Le “quote rosa” – ad esempio – sono poca cosa di fronte al rischio di dissociazione. Dissociazione nella quale, secondo alcuni, è caduta proprio Hillary: non abbastanza uomo e non abbastanza donna per essere convincente di fronte agli elettori.

Dunque tutto è perduto per le donne che decidono di fare politica? Sarebbe, alle soglie del 2017, un fatto ben triste. Quindi che fare? Per prima cosa si dovrebbe accettare il rischio e l’assunzione di responsabilità di un cambiamento radicale spostando l’asse dall’adattamento a un modello o di un modello (le donne-uomo, gli uomini che “accolgono” le donne) e dalla critica a qualsiasi tipo di atteggiamento o modello maschile, verso un’ibridazione dei caratteri. Farsi promotori di una mescolanza capace di affermare il soggetto (come individuo e come soggetto politico) al di là del genere, ma senza negarlo. Si dovrebbe aspirare ad un nuovo manifesto valoriale della politica che parta dall’autenticità e dallo scambio di competenze, femminili e maschili. Un’autenticità che implichi un livello di contraddizione fertile, quella per la quale una donna decisa, precisa e ferma nelle scelte possa essere al contempo accogliente e un uomo insicuro guida nell’elaborazione di una visione. Un’autenticità che restituisca complessità e spessore alle figure che animano la vita politica di un paese, che sia capace di generare anticorpi al macchiettismo dei personaggi da slogan e alle proposte senza radici.

Perché per superare la semplificazione di un Trump non occorre una donna che sappia fare la donna o che sia sempre più simile a un uomo, occorre piuttosto una figura complessa, che sappia tenere insieme le diverse identità patrimonio della sua storia. Questo patrimonio, fatto di femminile, di diversità razziale, di una specifica estrazione sociale, maturato, elaborato, sviluppato in modo autonomo e reso “semplice” all’esterno grazie al suo essere reale e non costruito, è stato forse ciò che ha reso “complessa” e quindi comprensibile, vicina e umana Michelle Obama. Una complessità che, a fronte di un sistema in crisi che punta sempre di più ad una semplificazione che annulla lo spessore della riflessione (ma per contrasto complica la percezione da parte di chi “osserva da fuori”) può essere forse il motore di un cambiamento nell’approccio alla politica. E quindi, più in generale, al cambiamento. Cambiamento che implica una fertile contraddizione, né maschile, né femminile, ma autentica. Quell’autenticità che forse è mancata alla – fin troppo solida – figura di Hillary Clinton.

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