Questioni di genere
Melania Trump, ma non solo: 3 slovene famose
Maja Slivnjak è responsabile ufficio stampa dell’Ente per il Turismo Sloveno in Italia. Il post è sponsorizzato da:
In questo periodo si sta parlando tantissimo della nuova First Lady americana, Melania Trump. Che, come tutti sanno, è nata in Slovenia. Per la precisione, a Sevnica: un grazioso paese di 5mila abitanti sulla riva sinistra del fiume Sava, celebre per il suo castello del XIII secolo (e la bucolicità della zona).
La parabola della signora Trump sembra tratta da un film di Hollywood. Nasce nel 1970 a Sevnica, con il nome di Melanija Knavs. Suo padre è a capo di un concessionario di auto per conto dello Stato (che allora era la Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia), sua madre lavora in un’azienda tessile. La giovane Melanija è bella e sveglia, legge le rivista di moda italiane e sogna di sfilare per qualche grande stilista. A Lubiana, dove la famiglia si trasferisce, studia design e architettura (e fa bene: la capitale slovena vanta una delle migliori scuole di architettura della Mitteleuropa) e inizia la sua carriera di modella, che la porta presto a Milano.
La capitale italiana della moda diventa per Melanija il trampolino di lancio per altre destinazioni, come Parigi e soprattutto New York, dove conosce Donald Trump, che sposa nel gennaio 2005 (alle nozze partecipano molti VIP di New York, inclusi la senatrice Clinton e il marito). L’anno dopo diventa madre di Barron William Trump, quinto figlio di Donald, e famoso per la sua passione per girare in giacca e cravatta (il padre lo chiama mini-Donald, e ama giocare a golf con lui).
Quando Trump decide di candidarsi alle primarie repubblicane, Melanija lo sostiene, ma con discrezione. A un giornalista che le domanda a quali First Ladies si ispirerà, in caso di vittoria del marito, risponde: “Sarei una First Lady molto tradizionale, come Bettie Ford o Jackie Kennedy”. Una risposta bipartisan, da una donna che sembra avere un carattere e uno stile diversi da quelli di Hillary Clinton, Michelle Obama o Nancy Reagan. In ogni caso lei è già passata alla storia: sarà infatti la seconda First Lady nata all’estero dopo la britannica Louisa Adams, moglie del sesto presidente degli Stati Uniti John Q. Adams.
Ma non c’è soltanto Melania Trump. In realtà vorrei approfittare dell’attenzione verso la signora per parlare di altre due donne slovene, meno conosciute al grande pubblico, ma per le quali nutro immensa stima. La prima è Alma M. Karlin. Scrittrice, viaggiatrice, artista, filosofa e poliglotta, anticonformista e coraggiosa, la Karlin nasce nel 1889 a Celje, allora parte dell’Impero austro-ungarico. Suo padre è un ufficiale dell’esercito, sua madre una maestra: una famiglia colta per quei tempi. La Karlin è una ragazza minuta, fragile, ma di gran carattere, e a 19 anni si trasferisce (da sola, cosa inaudita all’epoca!) a Londra, capitale dell’Impero britannico nonché una delle più multietniche città del mondo. Studia con passione le lingue, arrivando a parlarne ben nove: inglese, francese, finlandese, italiano, norvegese, danese, latino, russo e spagnolo (oltre che tedesco e sloveno).
Con lo scoppio della Prima Guerra Mondiale è costretta, a causa della cittadinanza austro-ungarica, a lasciare l’Inghilterra e a rifugiarsi nella neutrale Scandinavia. E proprio lì conosce la svedese Selma Lagerlöf (prima donna a vincere un Nobel per la letteratura); la Lagerlöf resta così colpita dalla scrittura della Karlin da proporla, anni dopo, per il Nobel.
Con la fine della guerra la Karlin rientra in Slovenia, ora parte del Regno di Jugoslavia. Apre una scuola di lingue a Celje, e si dedica anima e corpo all’insegnamento, mentre nel tempo libero scrive, dipinge e studia altre lingue. Dopo aver raccolto un po’ di denaro riesce finalmente a realizzare il suo sogno: parte per un viaggio intorno al mondo che durerà nove anni, e che la porterà in luoghi allora remotissimi come le isole del Pacifico e l’Asia del sud, oltre alle Americhe e all’Australia. Oggi arrivare agli antipodi è abbastanza facile, ma negli anni Venti si tratta di viaggi lunghi, complessi e a volte pericolosi, e le donne che viaggiano da sole non sono viste di buon occhio.
La Karlin torna a casa nel 1928, in tempo per dare l’addio alla madre malata, e inizia a scrivere libri. Già nota (specie in Germania e Austria) come giornalista di viaggi, grazie ai suoi libri ottiene fama in tutta Europa. Scoppia la Seconda Guerra Mondiale, i tedeschi e i loro alleati italiani e ungheresi occupano la Jugoslavia. Il regno si dissolve come nebbia al sole, la repressione degli invasori è durissima. La Karlin però non si fa intimidire, e aiuta dissidenti e oppositori del regime, incluso lo scrittore anti-nazista Hans Bonsack, a cui dà rifugio.
Con le sue azioni la Karlin si attira le ostilità della autorità, che progettano di deportarla in un lager. Grazie all’intervento di alcuni amici influenti, però, la deportazione non ha luogo, e viene confinata nella sua casa di Celje, agli arresti domiciliari. Non è la morte, ma quasi, specialmente per una donna amante della libertà e dei viaggi come lei. Fugge, entra in contatto con la resistenza slovena, dà una mano come può. Ammalata, dopo la guerra torna a Celje, dove si spegne nel gennaio del 1950, a 60 anni.
A livello personale, della Karlin amo molto alcuni libri, come Samotno potovanje e Malik, e non potrò mai dimenticare una sua splendida frase:
“Attraversa la vita solo e abbandonato chi pensa soltanto a se stesso; ma chi sa adattarsi amorevolmente alle cose, e sa volgere tutto al meglio, chi sa sempre dove offrire una mano di aiuto e dona se stesso agli altri, ha una vita che è come un prato fiorito, e le tracce del suo lavoro sopravvivono alla sua morte”.
Un’altra figura femminile di grande spessore umano è la dottoressa partigiana Franja Bojc Bidovec. Nata nella Slovenia del sud nel 1913, la Bidovec studia medicina a Lubiana, Belgrado e Croazia, dove si laurea nel 1939. Nel 1941, quando le potenze dell’Asse invadono la Jugoslavia, la giovane dottoressa decide di fare la sua parte, e inizia a cooperare con la resistenza; due anni dopo si unisce ai partigiani, e nel 1944 entra nel Partito comunista. Sempre in quell’anno ha inizio il suo lavoro come primario dell’ospedale segreto che i partigiani hanno costruito in una gola della valle del torrente Pasica, tra alberi e rocce.
L’ospedale, che presto viene ribattezzato “Franja” in onore della dottoressa, è usato dai partigiani jugoslavi per curare non soltanto i loro compagni feriti, ma anche soldati alleati (ad esempio il pilota americano Harold Adams) e persino soldati tedeschi e italiani. Gli invasori sanno dell’esistenza dell’ospedale (dove del resto lavora un medico italiano, il napoletano Antonio Ciccarelli), e cercano in tutti i modi di trovarlo. L’ospedale però è ben mimetizzato, e feriti e malati vengono condotti lì bendati: il nemico non riuscirà mai a trovarlo. Oggi la struttura è un sito storico di interesse nazionale, e potrebbe diventare presto un patrimonio dell’UNESCO.
Dopo la guerra la Bidovec lavora come medico negli ospedali militari di Gorizia, Trieste e Lubiana, e poi in due cliniche ginecologiche. Continua però a studiare, e si specializza nella cura della tubercolosi, malattia allora abbastanza diffusa. Benché tutti conoscano il suo eroico lavoro durante la Seconda Guerra Mondiale, non ha vita facile: giovane e bella com’è, subisce le avances di alcuni potenti dell’epoca; i suoi rifiuti le creano parecchie noie, e persino un’indagine sulle sue opinioni politiche. Si spegne nel 1985, a 72 anni di età, a Lubiana.
In copertina, “Parižanka” della pittrice slovena Ivana Kobilca. Maja Slivnjak, autrice dell’articolo, è responsabile ufficio stampa dell’Ente per il Turismo Sloveno in Italia.
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