Questioni di genere
L’ipocrisia pseudofemminista fa schifo
In quest’epoca di post-verità (ma meglio dirla come le nostre nonne: di menzogne) si stanno affermando delle nuove figure nel variegato panorama mediatico occidentale: le opinioniste e gli opinionisti reazionari che per fare carriera spacciano le loro idee per femminismo rivoluzionario, tacciando le femministe di essere delle fanatiche del politicamente corretto, di idolatrare la carriera e disprezzare il focolare domestico, di fare il gioco delle multinazionali e “castrare” i “veri uomini”. Sofismi gonfi di ipocrisia. Ma del resto, così va il mondo: una volta i reazionari avevano almeno la decenza di definirsi tali, e di accusare i progressisti di essere, appunto, troppo progressisti. Rivoluzionari. Sognatori pericolosi. Oggi no. Oggi i reazionari vogliono essere reazionari ma anche rivoluzionari, di destra ma anche di sinistra. Vogliono la botte piena, e la moglie (o il marito) ubriaca.
È un fenomeno che conosciamo bene noi italiani: analogo a quello di certi atei devoti, che predicano il cristianesimo (per gli altri) ma a casa propria fanno quello che cazzo vogliono, non credono neanche in Dio, vogliono i crocifissi in ogni luogo ma tacciano di “buonismo” chiunque un po’ cristiano lo è davvero; analogo a quello di certi paladini della famiglia ultra-tradizionale che poi divorziano due o tre volte, convivono o altro ancora.
Naturalmente il femminismo in questi anni ha fatto degli errori. Ma l’infallibilità non è di questo mondo. Siamo però arrivati al paradosso, quello del bue che dà del cornuto all’asino, un po’ come quando il controverso miliardario Trump accusa Obama e la Clinton di essere degli arricchiti corrotti, o quando la Russia, dove i giornalisti vengono uccisi e i diritti umani sono una barzelletta, si erge a roccaforte del Cristianesimo.
Oggi, in certi salotti e consessi mediatico-culturali, è diventato cool tuonare contro le femministe e il “patriarcato” femminista, e dire che il vero femminismo consiste nel tornare agli antichi modelli femminili incentrati sulla triade casa-chiesa-culla, e che la donna davvero libera è quella che non si emancipa, ma che resta a casa ed è lieta di sottomettersi al maschio alfa. Insomma, un vero e proprio festival dell’ipocrisia reazionaria, che sbeffeggia chi si incaponisce a chiedere la parità dei diritti…
Naturalmente queste persone, inclusi gli opinionisti reazionari citati nell’incipit dell’articolo, sono pronti a dimenticare che il femminismo è frutto di almeno un secolo di dure lotte da parte proprio di quelle donne che volevano sfuggire alla triade casa-chiesa-culla. Non sono state le femministe della mia generazione ad aver combattuto la Resistenza, la battaglia per il diritto al voto, per l’art. 3 della Costituzione, per la parità sul luogo di lavoro, per il diritto al divorzio o all’aborto: sono state le nostre bisnonne, le nostre nonne e le nostre madri, che oggi qualche volta sono nonne a loro volta. Donne che, i modelli oggi tanto predicati, li conoscevano sin troppo bene…
Ora, io non ho nulla contro le donne che vogliono stare a casa a pulire, badare ai pargoli e preparare colazione, pranzo e cena. Una donna, a mio parere, è libera di fare la casalinga o la suora, diventare manager o scienziata nucleare, prostituirsi, restare vergine o sposarsi un miliardario, dare alla luce 12 figli o indossare il cilicio. Il punto, che ai reazionari anti-femministi sfugge, è che ogni donna è libera di essere ciò che vuole. E tale libertà non le deriva dall’essere donna, ma dall’essere un essere umano.
Per come la vedo io, un uomo è libero di andare a lavorare in fonderia o stare a casa a badare ai figli, prostituirsi, restare vergine o sposarsi una ricca imprenditrice (o un ricco imprenditore), diventare giornalista o programmatore informatico, farsi prete o ballerino di flamenco. Ogni essere umano, femmina o maschio che sia, può fare tutto ciò che vuole della sua vita. Ma il modello e lo stile di vita che ciascuno sceglie in tutta libertà non può diventare una prescrizione universale.
Essere femminista significa impegnarsi per la parità di diritti e per delle condizioni culturali, sociali ed economiche che permettano a ogni essere umano di realizzare se stesso come meglio crede. Checché ne dicano alcuni, che teorizzano l’esistenza di un “patriarcato femminista”, il femminismo non consiste nell’imposizione di un unico modello di libertà ed emancipazione. Se una donna sceglie, liberamente e consapevolmente, di stare a casa a fare la casalinga, è liberissima di farlo! Ma non si può dire che il vero femminismo consiste nello stare casa a fare la casalinga, perché ci sono tantissime donne che preferiscono lavorare e dedicarsi alla carriera, proprio come fanno, da secoli, gli uomini.
Le vere femministe non sono quelle che sbeffeggiano le donne che scelgono come esprimere e realizzare la loro individualità. Sono quelle che insorgono quando il modus vivendi di alcune viene celebrato come il Modello idoneo a una presunta essenza femminile, spesso con i soli obiettivi di legittimare lo status quo e la propria cattiva coscienza.
Quando scrivo delle difficoltà che, ancora oggi, molte donne si trovano ad affrontare per trovare un lavoro in Italia, alcuni uomini rispondono che ci sono donne che non sognano altro che poter stare a fare le casalinghe e le mamme. E allora? Le signore che vogliono fare l’angelo del focolare lo facciano. Ma non si può strumentalizzare la loro scelta per giustificare il divario salariale. Né gli ostacoli patiti dalle donne in età fertile e in cerca di un lavoro (a proposito, quand’è che i paladini della famiglia si decideranno a battersi per il diritto alla maternità delle donne che lavorano? O forse i bimbi sono lo “scudo umano” per tenere le donne al loro posto?). Né il fatto che si continuino a preferire gli uomini per le posizioni apicali.
Se ci sono donne che vogliono stare a casa e fare le casalinghe o le mamme a tempo pieno ben venga. Ma la loro scelta non può diventare uno strumento in mano a chi punta a legittimare l’unico vero patriarcato che ancora esiste, quello maschilista. Come femminista, io non ho mai criticato le donne che scelgono di non lavorare (e non sono certo l’unica!) Ma se mi si dice che restare a casa a badare ai figli (o a farsi bella) è l’essenza della femminilità, e persino del femminismo, ovviamente non ci sto.
E del resto chi attacca il femminismo nega (o difende) ciò che resta di un sistema sociale patriarcale che sino a un secolo fa era la regola ovunque, e che è ancora vitale in molte parti del mondo. Perché oltre al divario salariale, all’occupazione femminile sotto il 50%, alle donne licenziate quando rimangono incinta, come succede in Italia o in altri paesi dell’Europa occidentale, ci sono paesi dove le donne non possono guidare, sposare chi vogliono, studiare; paesi dove si pratica la mutilazione genitale femminile, dove le donne stuprate sono considerate delle criminali, dove abortire significa la galera per anni, dove si abortisce solo se il feto è di sesso femminile, dove i bambini, in quanto sessualmente immaturi, sono usati come surrogato delle prostitute, dove picchiare la moglie non è reato e dove essere lesbiche (o gay, o transessuali, o bisessuali) può portare anche alla morte. Queste cose succedono: in parti del mondo arabo così come dell’Estremo Oriente, in America latina come in Africa, in Asia centrale come in Europa orientale.
Non esiste il patriarcato, davvero? Negare il bisogno di femminismo significa negare il bisogno di continuare a lottare per i diritti umani. E in effetti molte delle donne e degli uomini anti-femministi con cui ho avuto l’occasione di parlare, alzano le spalle anche quando si parla di diritti umani. Il problema non è che ci sono troppe femministe, ma l’esatto contrario. Il problema è che di femministe ce ne sono troppe poche.
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