Asterisco, schwa singolare e plurale

Questioni di genere

Linguaggio e identità

Perché l’asterisco e la schwa non sono solo simboli che disturbano chi li legge.

24 Marzo 2025

Recentemente, il Ministero dell’Istruzione ha vietato l’uso dell’asterisco (*) e della schwa singolare (ə) e plurale (ɜ) nelle comunicazioni ufficiali, sostenendo che questi strumenti compromettano chiarezza e accessibilità. La decisione si allinea al parere dell’Accademia della Crusca, che considera queste soluzioni poco adatte all’italiano scritto e parlato.

Ma questa scelta è davvero neutra? O rappresenta un passo indietro per l’apertura linguistica?

Il provvedimento non è una semplice scelta tecnica o stilistica: ha conseguenze concrete sulla visibilità e il riconoscimento delle identità non binarie e di chi, quindi, non si riconosce nel binarismo di genere. In un momento storico in cui finalmente ci si rende conto che le parole non sono solo strumenti di comunicazione ma anche di riconoscimento sociale, vietare l’uso di segni inclusivi significa silenziare alcune soggettività e ridurne la legittimità.

Inoltre, questa decisione sembra voler cristallizzare una visione statica della lingua, ignorando che il linguaggio è in continua evoluzione e si adatta alle trasformazioni sociali. Le regole linguistiche non sono mai state immutabili: il linguaggio si è sempre adattato ai cambiamenti culturali e sociali, rispondendo ai bisogni di chi lo usa.

L’asterisco e la schwa non sono strumenti perfetti né soluzioni definitive, sono difficili da pronunciare, ancora di più durante la produzione orale. Hanno limiti e non sempre sono facilmente leggibili o accessibili a tuttɜ. Ma la loro funzione, oggi, è chiara: rappresentano un atto di autodeterminazione per chi non si sente rappresentato dal maschile sovraesteso o dalle regole binarie della lingua italiana. In un contesto in cui il linguaggio gioca un ruolo chiave nel riconoscimento delle identità, vietare il loro utilizzo equivale a limitare le possibilità di espressione.

Si parla spesso dell’accessibilità come motivazione per il divieto. È un tema serio e importante, ma non può essere usato come strumento per escludere persone storicamente marginalizzate. Anche altre lettere o segni della lingua italiana presentano difficoltà per alcune categorie di persone (b e d per chi è dislessicə, ad esempio), eppure nessuno ha mai pensato di vietarle. Perché allora il tema dell’accessibilità viene tirato in ballo solo quando si parla di strumenti linguistici con una valenza inclusiva?

La questione centrale non è l’uso della lingua in sé, ma la funzione che questa assolve. La scelta di vietare l’uso di schwa e asterisco, senza offrire alternative realmente inclusive, è una presa di posizione ideologica, non una tutela della lingua. Il linguaggio non è solo forma, ma sostanza: è il mezzo attraverso cui rappresentiamo il mondo e diamo spazio a chi ne fa parte.

Non si può ignorare, inoltre, come questo provvedimento rientri in un più ampio clima politico in cui il decisionismo anti-DEIA (Diversity, Equity, Inclusion, Accessibility), già evidente in altri paesi, sta trovando terreno fertile anche in Italia. Il divieto della schwa e dell’asterisco segue la stessa logica: spacciare per “neutralità” una decisione chiaramente ideologica, un atto di forza, mascherandolo da difesa della lingua e della sua purezza. Questo tipo di narrativa ricalca strategie già viste altrove, dove la lotta all’apertura viene presentata come una battaglia in difesa di fantomatiche tradizioni e norme prestabilite.

Orwell ne scriveva già nel secondo dopoguerra: “Non vedi che lo scopo della neolingua è di restringere la portata del pensiero?” Questa riflessione, nata in un contesto di distopia politica, è sorprendentemente attuale. Il linguaggio non è mai neutro: le parole che scegliamo – o che ci viene imposto di non usare – influenzano la nostra capacità di nominare la realtà e di concepire nuovi modi di essere e di esistere. Vietare strumenti linguistici con una chiara valenza inclusiva non è solo una questione di stile o di regole grammaticali, ma una limitazione del pensiero stesso. Privare le persone di termini con cui esprimere la propria identità significa, in un certo senso, negare l’esistenza di quelle identità. E questo, in una società democratica, dovrebbe metterci in allarme.

Anziché vietare, dovremmo promuovere un dibattito aperto e costruttivo sulle esigenze di una lingua più ampia. L’evoluzione linguistica non si impone dall’alto, ma nasce dalla società, dalle persone che ogni giorno usano il linguaggio per descrivere sé stesse e il mondo che abitano.

Ignorare tutto questo significa perpetuare l’invisibilità di chi, per secoli, è statə esclusə e marginalizzatə. Vogliamo davvero una società che nega spazio e riconoscimento a chi chiede solo di essere vistə?

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