Questioni di genere
Le parole dell’amore, l’educazione alle relazioni
Sono stata una ragazza fortunata.
Per un paese dove ancora i giornali usano termini come “delitto passionale” e dove – dietro alle storie di violenza quotidiana nei confronti di fidanzate, mogli, amanti, ex – si cerca ancora di ricostruire un percorso giustificativo a partire dai sentimenti, penso di essere stata fortunata. Nessuno mi ha mai detto “Non puoi uscire vestita a quel modo”, nessuno mi ha mai impedito di frequentare chi volevo, come e quando volevo, nessuno mi ha mai dato ad intendere che la gelosia fosse qualcosa di diverso da una debolezza umana. Non un segno di amore e di cura, non la manifestazione di un “tenerci” all’altra persona, ma un sentimento – normale quando ben gestito – fra quelli percepiti come negativi, come la rabbia, l’invidia, il rancore.
Per qualcuno invece la gelosia è ancora un sentimento positivo, un “buon segno” che quando c’è offre la garanzia di un amore vero. Non è la sola “falla” del nostro sistema. Culturalmente siamo ancora portati ad accettare che siano le donne a doversi far carico del rispetto nei loro confronti. Una cura maggiore viene spesso dedicata alla trasmissione di valori positivi e modelli comportamentali “corretti” per le ragazze: vestirsi in modo appropriato, rientrare per tempo la sera, non dare troppa confidenza, non sembrare eccessivamente disponibili, ma anche, parallelamente, s’insegna che devono portare pazienza, che le donne troppo emancipate, quelle che decidono per loro stesse, rischiano di spaventare gli uomini.
Nonostante queste evidenti differenze, ciò che ci dovrebbe allarmare è un’altra questione, più trasversale, che abbraccia entrambi i generi: le persone non sono più in grado di accettare un “no” – uomini o donne che siano – di tollerare la frustrazione che deriva dalla mancata adesione della realtà a un desiderio o a un piano che ci si era prefigurati. Statisticamente, forse proprio per un discorso culturale, sono gli uomini a reagire in modo aggressivo e violento e le donne, semmai, ad attuare strategie di “ricatto morale”, arrivando a volte a farsi del male in prima persona, ma il grado di analfabetismo emozionale si sta pericolosamente innalzando su entrambi i fronti.
Che sia figlio di una società focalizzata solo sugli “obiettivi da conseguire” e sul successo, oppure di una tendenza a credere che “tutto è possibile” se si è determinati e si lotta con le giuste armi, l’atteggiamento rispetto alle relazioni affettive sta arrivando a ricalcare sempre più da vicino quello legato al senso di proprietà.
Ma essere legati a qualcuno è molto diverso dall’appartenersi.
Appartenersi porta con sè un’idea di proprietà esclusiva ed escludente che, quando viene messa in discussione, fa scattare meccanismi di attacco. Non difesa, attacco.
Non sarà di sicuro una più accorta educazione sentimentale ad evitare tragedie come quella riportata in questi giorni sulla stampa, ma se ora siamo tutti concentrati sulle soluzioni a breve termine, se c’è chi accusa chi non si è fermato d’indifferenza, se c’è chi parla di pena di morte, forse dovremmo anche a riflettere, solo per un momento sulle motivazioni di un senso di possesso dell’altro così forte da trasformare l’amore in ricatto, pressione, gabbia, violenza e omicidio.
Perché tolleriamo che qualcuno, magari con la scusa dei sentimenti, pensi di possedere per diritto una persona. “Era geloso/a e ha perso la testa”. Una frase edulcorante. Ha perso la testa, ma non ha perso la testa per razzismo, odio religioso, desiderio di vendetta o rivalsa sociale: ha perso la testa per amore.
Non è una ragione, non può più passare come una motivazione parzialmente scagionante.
Quando tolleriamo queste scusanti, quando accettiamo discorsi, gesti e atteggiamenti di chi costruisce un recinto intorno alla persona che vuole possedere (perché di amore non si può parlare), confermiamo pubblicamente che è giusto pensare che “O con me o contro di me”, “O una vita insieme o nessuna vita”, “O nel nostro mondo o fuori da questo mondo”.
E allora andrà ancora “bene” se saranno “solo” pressioni psicologiche, vite “ricattate” e tenute in gabbia, privazioni di piccole o grandi libertà come quella di parlare con la famiglia, frequentare gli amici, vivere serenamente la propria quotidianità. Andrà ancora bene perché il passo dal “mi appartieni e se non mi puoi appartenere allora voglio che tu sparisca dalla mia vita” al “ti farò sparire dalla vita punto e basta” è breve.
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