Questioni di genere
Le parole della violenza
“Questo articolo è parte di una campagna a cui hanno aderito scrittrici e giornaliste italiane per denunciare la violenza di genere e nominarla”
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Alice faceva fatica a stabilire quando la sua relazione aveva iniziato ad essere tossica, o meglio, a datare il momento esatto in cui il suo partner era diventato un abuser, forse perché lo era stato sin dal principio, solo che lei non se ne era resa conto. E se non se ne era accorta i motivi erano molteplici, ai tempi della loro storia non si parlava ancora di violenza di genere né di patriarcato, lei si sentiva così innamorata e Lui era così affascinante.
Si erano conosciuti in treno, sul regionale Torino-Ivrea, in una gelida mattina di gennaio, stretti nei loro cappotti si erano lamentati del riscaldamento delle vetture, sempre guasto. Qualche battuta, un numero di telefono scritto sulla quarta di copertina di un libro e l’altro su un polso e da quel giorno avevano cominciato a sentirsi quotidianamente. Alice era entusiasta di quei messaggi puntuali, non aveva capito che in quel primo attaccamento c’era già tutta la sua morbosità.
Sembrava un incipit da film, peccato solo per quegli sporadici scatti di rabbia che da occasionali stavano diventando sempre più frequenti.
Certo, ripensandoci, era stata proprio una sfortuna incontrare il suo ex flirt al loro primo vero appuntamento, Lui era andato fuori di testa, tanto da insultare l’ex urlando per strada e lei aveva rivisto poco dopo la cena vietnamita sul marciapiede. Ed era proprio una seccatura che il suo miglior amico volesse continuare a venire a cena ogni settimana, come era solito fare. Proprio ora che si era sistemata. Alice pensava che il destino le stesse servendo un tiro mancino e che si trattasse solo di sfortunate coincidenze per cui era normale che Lui si arrabbiasse tanto e alzasse un po’ i toni. Non erano tempistiche sbagliate, ma la nuova realtà a cui Alice non sapeva ancora dare un nome.
Giornate da sogno lasciavano il posto a giornate da incubo e Alice imparò presto il significato della parola dicotomia. Stordita da questi umori altalenanti era così spaventata di perderlo che decise di non parlarne con nessuno.
Fu un attimo passare al doversi giustificare per un messaggio di troppo, ricevuto da un amico, e un lampo poi dover cancellare le chat per timore che Lui leggesse ancora il suo cellulare. Alice non aveva avuto grandi storie prima e pensava che la gelosia legittimasse una relazione in cui ci si ama molto.
D’altra parte era cresciuta in un contesto socio patriarcale in cui telefilm e canzoni d’amore non facevano altro che confermare che una relazione non è tale senza drammi.
‘’Amore, fai presto, io non resisto
Se tu non arrivi non esisto
Non esisto, non esisto.’’
Si era abituata quindi a grandi scenate improvvise e a digiuni causati da una gola sempre più stretta, in cui cercava di strozzare il pianto. Ma l’attesa dei momenti felici, alternata all’adrenalina dei forti litigi, l’aveva portata a superare settimane, poi mesi, infine anni.
“Amarti m’affatica
Mi svuota dentro
Qualcosa che assomiglia
A ridere nel pianto.”
Non era completamente accecata da questa forma di dipendenza amorosa, si era accorta della stortura del rapporto, aveva capito che c’era qualcosa in Lui che non andava e non aveva il coraggio di confessarlo a nessuno.
Ignorando cosa fosse il patriarcato, passava le notti a cercare su Google quelli che riteneva i sintomi di un disturbo della personalità. ‘Scatti di rabbia, gelosia, manie di persecuzione’ ed era arrivata a una diagnosi fai da te: borderline. Si era anche imbattuta in un forum di partner di soggetti border in cui finalmente si riconosceva. Ogni testimonianza che leggeva le era cara perché simile alla sua. L’errore successivo fu pensare che essendoci una diagnosi potesse esserci anche una cura e quella cura pensava di essere lei.
“Ti solleverò dai dolori e dai tuoi sbalzi d’umore
Dalle ossessioni delle tue manie […]
E guarirai da tutte le malattie
Perché sei un essere speciale
Ed io, avrò cura di te”
Così al posto di iniziare ad allontanarsi, Alice andò a convivere con Lui pensando che passando più tempo insieme sarebbe stato meno geloso e così il cappio al collo si fece solo rapidamente più stretto.
Decisero di fare un lungo viaggio per l’Europa, ma al posto di accumulare ricordi felici stava soltanto accumulando scenate pubbliche. Ad ogni scatto fotografico di quella vacanza in cui sorridevano corrispondeva un pianto da poco sopito. Al mare Alice non poteva prendere il sole se non tenendo gli occhi chiusi perché altrimenti qualsiasi cosa guardasse, per Lui, stava guardando altri uomini, poco importa chi, dal vicino di ombrellone al venditore di cocco bello. Passeggiando per le strade delle città nessuna persona di sesso maschile poteva guardare nella sua direzione altrimenti partiva il suo urlo ringhioso “che cosa guardi?” o nel caso di coppia, il più patriarcale “guardati la tua” in tutte le lingue a Lui conosciute.
La colpa, così al mare come per strada, ricadeva sempre su Alice che continuava a mettersi quei maledetti collant giallo senape per attirare l’attenzione sulle sue gambe e farsele guardare. Così passò dal subire il controllo del telefono a quello dell’abbigliamento.
Al timore, che Alice aveva, di perderlo si sostituì la vergogna di essersi cacciata in una relazione senza uscita. Continuava a non confidarsi con nessuno perché c’erano risposte che non sapeva dare nemmeno a se stessa.
Quando Alice trovò un lavoro che la appassionava, nel campo della moda, e che la teneva lunghe giornate fuori casa, Lui iniziò a mettere in scena il teatrino del ricatto psicologico. Il più riuscito degli inganni era quello del tentato suicidio e alle prime simulazioni Alice aveva seriamente temuto che potesse farlo sul serio. Scappava con una scusa dal lavoro e si precipitava correndo a rotta di collo a casa per trovarlo tranquillamente seduto al solito posto: davanti alla PlayStation a fumarsi una canna. Il sollievo del pericolo scampato, misto alla rabbia dell’inganno, facevano sprofondare Alice in un’angoscia da cui non sapeva uscire. E anche quando i presunti tentativi di farla finita erano sempre meno veritieri lei correva sempre per paura che si trattasse dell’eccezione della favola ‘Al lupo, al lupo’.
I momenti belli della relazione, quelli grazie ai quali riusciva ad andare avanti, diventarono sempre meno fino a che ogni giorno ebbe il suo divieto che, alla fine, diventò anche quello di sorridere.
Le botte no, quelle per fortuna non arrivarono mai, ma Alice pensava che probabilmente si sarebbe presa anche quelle, talmente si sentiva fuori da ogni logica del buonsenso. I suoi lividi invisibili erano parole piene di stizza e rabbia che si insinuavano sotto pelle. Non perdeva sangue e non aveva ossa rotte, e per questo si sentiva ingenuamente sicura che un capello non le sarebbe mai stato torto. Non temeva che diventasse violento ma Lo temeva tutti giorni. Temeva che si arrabbiasse per un nonnulla. Temeva di portarlo a qualsiasi evento pubblico. Terminava le sue chiamate fuori casa, sotto al portone, di modo da non farsi trovare al telefono da Lui quando rientrava. Evitava di raccontare qualsiasi episodio del suo passato che avesse un protagonista maschile, per il presente non c’era pericolo aveva già dovuto eliminare tutte le sue amicizie. Si affannava quotidianamente nel cercare di prevenire ogni sua possibile sfuriata ma Lui trovava sempre una scusa in cui riversare tutta la sua rabbia.
Con una scusa partì anche lei, ufficialmente andò a Parigi per seguire le sfilate, in realtà andò a trovare un amico che viveva lì e con cui, dopo un giro in motorino per gli Champs-Élysées, si confidò tra mille lacrime. Stava cercando un monolocale da mesi, finalmente lo aveva trovato, aveva già dato la caparra e al suo rientro dalla Francia, ancora non sapeva con quale scusa, ma avrebbe traslocato.
Così come non sapeva dire quando fosse iniziata, Alice faceva fatica a stabilire il momento esatto in cui era finita, quando nella sua testa aveva deciso basta lo lascio, me ne vado, scappo. Quando aveva iniziato a rispondere agli annunci immobiliari? Quando aveva progettato il viaggio a Parigi? O quando lui le aveva spento il sorriso in volto? Poco importa, quel momento per fortuna era arrivato. Ed è proprio nell’attimo del risveglio, in cui si accorge dell’incubo in cui si vive, proprio quando ci si alza per scappare, che alcune donne vengono uccise.
Non sapeva dire se ci fossero tempistiche più fortunate di altre. Se alcuni uomini sono solo dei cani che abbaiano e non sarebbero mai capaci di mordere ed altri sono degli assassini. Perché di fatto non dovrebbero esserci nemmeno i presupposti per cui una donna da una relazione dovrebbe scappare senza potere semplicemente chiuderla. E non dovrebbero esserci relazioni chiamate “storie d’amore” in cui l’uomo prevarica, schiaccia e sminuisce la sua compagna perché pensa di possederla.
Finito di scrivere queste parole Alice chiuse il portatile senza versare una sola lacrima, non era la prima volta che cercava di mettere nero su bianco i ricordi di quella storia, ma era la prima volta che ci riusciva.
Gli ultimi fatti di cronaca, il femminicidio di Giulia Cecchettin, la rabbia rimasta sepolta per anni e infine l’iniziativa letteraria, lanciata dalle scrittrici Giulia Caminito e Annalisa Camilli, “Unite contro la violenza di genere” l’avevano spinta a raccontare la sua esperienza a cui ora sapeva dare un nome.
Nonostante fossero passati più di dieci anni dalle vicende che descriveva, Alice non riusciva ad usare la prima persona perché quel periodo le sembrava ancora una vita che non era la sua, parafrasando Emmanuel Carrère.
Ci sono degli eventi che sono degli spartiacque nelle vite delle persone. Questa relazione segnava sicuramente un confine nella vita di Alice tra la ragazza che era, la persona che era stata quando stava con lui e la donna che era diventata, dopo. Le parole della violenza che in passato l’avevano quasi annientata, oggi, finalmente, l’hanno liberata.
Credits Photo: Lin Yung Cheng Artist
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