Famiglia
Le conseguenze del femminicidio
Quando una donna muore per mano di un uomo non viene distrutta soltanto una vita, si rovinano intere famiglie. A pagare le conseguenze del femminicidio sono madri, padri, sorelle, fratelli, figli. A loro restano i giorni del dopo, i ricordi immobili appesi ai muri, trattenuti dalle cornici, le spese legali, le umiliazioni nei tribunali, le accuse del «se l’è cercata», «era una poco di buono».
Secondo il rapporto Eures, in Italia viene assassinata una donna ogni sessanta ore. Tuttavia, mentre il numero degli omicidi diminuisce, aumenta quello dei femminicidi – termine con cui si intende l’uccisione di una donna a causa del suo genere di appartenenza, del suo essere donna, per motivi di odio, disprezzo, piacere o senso del possesso. Nella maggioranza dei casi i crimini sono commessi dal marito, dal fidanzato oppure dall’ex partner.
Sempre più famiglie rifiutano di chiudersi nel dolore e intraprendono battaglie quotidiane. C’è chi scrive libri, organizza incontri nelle scuole, lancia petizioni, raccoglie fondi per iniziative di sensibilizzazione, fa attivismo online. Lo scopo è indicare alla società che la tragedia che affrontano non è dovuta né alla sfortuna né alla colpa, ma ha radici culturali e sociali. Come scrive il magistrato Fabio Roia in Crimini contro le donne (Franco Angeli, 2017), «il fenomeno della violenza contro le donne è un atteggiamento diffuso, oscuro, antico, tollerato». Ci sono statistiche in merito. L’European Union Agency for Fundamental Rights rileva che, nei ventotto Paesi dell’Unione Europea, una donna su tre (sessantadue milioni) ha subito violenza fisica o sessuale nel corso della vita, e una su venti è stata stuprata. Manca però una percezione reale del problema: per l’Istat, solo un terzo delle donne maltrattate ritiene di essere vittima di un reato.
Le conseguenze dei femminicidi passano in secondo piano nel dibattito pubblico. Nelle cronache dei quotidiani e dei notiziari si insiste ancora sulla gelosia degli assassini e sul raptus. Nei tanti programmi televisivi che si occupano di omicidi e sparizioni, i racconti diventano sensazionalistici e pietistici. La pietà, in particolare, non va giù ai familiari delle vittime che vogliono giustizia, risarcimenti adeguati e misure di prevenzione da parte delle istituzioni, in primis la promozione dell’educazione alla parità di genere e al contrasto alle discriminazioni nelle scuole, fatta da personale qualificato.
Il passato resta sospeso nello sguardo serio di Giovanna Ferrari, mentre racconta il processo per sua figlia Giulia Galiotto, uccisa dal marito Marco Manzini l’11 febbraio del 2009, a trent’anni. Le pareti della sala da pranzo, nella casa di Pigneto, frazione di Prignano, in provincia di Modena, sono coperte dalle foto del sorriso di Giulia. «Credevo che le vittime trovassero spazio nelle aule di giustizia e invece è la parola dell’assassino che resta. Lì dentro Manzini ha infangato il nome di mia figlia. Per questo ho deciso di scrivere un libro, per raccontare la verità che ci è stata scippata». Per non dargliela vinta (Edizioni Il Ciliegio, 2012) ripercorre la trafila giudiziaria che ha portato alla sentenza finale di reclusione a diciannove anni e quattro mesi. «Non hanno voluto dargli l’aggravante della premeditazione anche se gli elementi c’erano. Avrebbe dovuto essere condannato a trent’anni, ma ammazzare una donna non vale così tanto in Italia. Lui aveva l’amante, ma voleva salvare le apparenze, così l’ha uccisa e ha inscenato un suicidio. Le ha fracassato il cranio con un sasso e ha portato il corpo, in auto, in un punto del fiume Secchia dove pensava che la corrente l’avrebbe portata via. Giulia è rimasta lì ferma, nell’acqua fredda, per lunghe ore».
Da anni Giovanna Ferrari partecipa a manifestazioni, incontri nelle scuole, fa attivismo su Facebook postando ogni giorni notizie sulla violenza di genere, è andata in televisione, è entrata a fare parte dell’Udi (Unione donne in Italia) di Modena, associazione con la quale si costituisce parte civile nei processi a sostegno delle donne maltrattate. Ha aiutato di persona una decina di donne che si sono rivolte a lei perché cercavano di scappare da rapporti violenti. Nel 2017 ha partecipato, come ex maestra e madre di una vittima di femminicidio, al progetto «Creative», istituito dal dipartimento delle Pari opportunità, per interventi nelle scuole perché crede che l’educazione sia fondamentale. «La società ci fa credere che le donne vengono ammazzate perché hanno sbagliato, che gli assassini agiscono per gelosia, che è il loro onore a restare ferito. Quando vado agli incontri, mi chiedono come è possibile che non mi sia accorta di nulla, mettono in discussione il mio ruolo di madre. Io non li condanno. Purtroppo la verità è che non sempre ci sono segnali eclatanti, per noi non ci sono state avvisaglie. Non mi aspettavo che potesse succedere qualcosa del genere, semmai ero preoccupata per gli estranei: negli ultimi mesi Giulia, quando andava al lavoro in banca, lasciava l’auto in un parcheggio sotterraneo, e io avevo paura che la sera, col buio, potesse essere aggredita da uno sconosciuto». Ferrari non ha ancora ricevuto tutto il risarcimento in denaro, stabilito dalla Cassazione in un milione di euro. Nel frattempo ha dovuto spendere trentamila euro per gli avvocati, per i tre gradi di giudizio. Nel 2010, il giudice aveva stabilito il pagamento immediato da parte dell’assassino di 440mila euro della provvisionale, che non si sono ancora visti e sui quali nel frattempo Ferrari ha dovuto pagare le tasse. Quando Manzini uscirà dal carcere, se comincerà a lavorare in regola, bisognerà procedere al pignoramento del quinto dello stipendio, ma non è una procedura automatica: la famiglia dovrà trovare un investigatore privato perché lo Stato non dà informazioni.
Giuliano Galiotto guarda lontano, fuori dalla finestra, dove la nebbia scende, coprendo la vallata. Non parla volentieri della figlia con gli estranei, è sua moglie ad avere un ruolo pubblico. Lui la accompagna sempre agli incontri, ma resta in disparte. Ascolta e si arrabbia quando qualcuno insinua che sarebbe anche colpa loro, dei genitori, che dovevano accorgersi che qualcosa non andava. Davvero possono ammazzarti una figlia così, senza avvisaglie? «Chi osserva da fuori non sa come sono andate le cose. Sui giornali l’hanno chiamato “il delitto di San Valentino”, “il crimine passionale”. Io e Giulia eravamo legati, scherzavamo sempre e parlavamo molto. L’ho sentita a mezzogiorno, quel giorno in cui lui l’ha uccisa. Mi aveva chiamato lei, mi ha fatto ridere con una battuta, poi mi ha annunciato che aveva una cena con il marito. Sapevamo che era un periodo di crisi, può succedere in un rapporto. Mi ero offerto di andare a parlare con lui, ma lei mi aveva detto di stare tranquillo».
Giuliano non dimentica i giorni passati in tribunale. «Con Giovanna ci sedevamo in fondo all’aula: nel rito abbreviato i familiari della vittima devono restare in silenzio. Un giorno, mentre l’avvocato di Manzini si permetteva di offendere Giulia, e intanto ci guardava, non sono riuscito a trattenermi e ho commentato ad alta voce che era l’assassino a dovere essere giudicato e non mia figlia. Il giudice mia ha detto: lei stia zitto, altrimenti se ne va fuori». Per lui, una delle poche occasioni in cui la figlia ha avuto giustizia è stata quando il Teatro Nero di Modena ha messo in scena «Nella cattiva sorte». «Lì, nel buio della sala, nel silenzio, tutti erano costretti ad ascoltare ed è uscita la verità su Giulia. Sul palco c’erano dei lacci rossi che legavano tutti, anche la legge. Vorrei che questo spettacolo venisse portato in tutta Italia».
Renza Volpini ha perso la figlia Jessica Poli il 13 febbraio 2007. È stata uccisa a trentadue anni con trentatré coltellate dal marito Ziadi Moncef. Avevano un bambino di quattro anni. Il corpo è stato ritrovato a Bozzolo, in provincia di Mantova, su una sponda del fiume Oglio, dopo venticinque giorni di ricerche: Moncef non confessava, diceva che la moglie se ne era andata, abbandonando la famiglia. «Per un po’ di tempo sono andata su quel ponte. Il giorno in cui l’hanno ritrovata non mi potevo muovere, ero col bimbo, mio nipote. Jessica voleva separarsi, aveva provato ad andarsene, aveva trovato un avvocato, ma lui le aveva chiesto perdono in ginocchio ed erano tornati insieme». Secondo le indagini, Jessica aveva perso diversi lavori come operaia per le scenate di gelosia del marito ed era finita al pronto soccorso di Asolo per via delle percosse. «Non sapevo tutto, non ho mai visto segni di botte. Se la trovavo strana e le chiedevo cosa avesse, mi diceva che era stanca. Una volta le ho domandato se lui avesse alzato le mani e ho aggiunto che se ci avesse provato non sarebbe finito solo lui in prigione, ma anche io. Forse le mie parole le hanno impedito di dirmi la verità?» Volpini ripete, con la voce improvvisamente incrinata, che non dimenticherà mai quella frase. Il fumo delle sigarette si sparge nella cucina del piccolo appartamento di Canneto sull’Oglio, in provincia di Mantova. In Cassazione all’assassino hanno dato 30 anni. Lei ha capito soltanto con il tempo le implicazioni della morte di sua figlia. «La prima volta che andai a una trasmissione, La vita in diretta, l’omicidio venne rappresentato come l’esito di un rapporto con differenze culturali perché lui era di origine tunisina. Inizialmente ne ero convinta anche io, poi mi sono resa conto che era una visione parziale, che Jessica era stata uccisa in quanto donna, tanto più che la maggior parte dei femminicidi sono compiuti da italiani. Ho deciso che volevo essere utile ad altre donne». Ha iniziato a seguire le iniziative di altri madri, partecipando a presidi e manifestazioni. Nei mesi scorsi è riuscita a fare mettere una panchina rossa in ricordo della figlia nei giardinetti pubblici di Piazza Martiri ed Eroi di Canneto sull’Oglio, vicino alla nuova scuola. Tra le conseguenze del femminicidio, per Volpini, c’è stata la presa in carico del nipote. Dopo essere rimasto orfano ha abitato per anni con lei e il marito, al quale era particolarmente affezionato. Quando il nonno è morto ha iniziato a diventare inquieto e aggressivo e da sola non è più riuscita a gestirlo. «Ho dovuto chiedere aiuto ai servizi sociali. Adesso non so più non so che ruolo devo avere, se sono una nonna oppure una mamma».
Il figlio di Jessica Poli è un «orfano speciale», una definizione coniata di recente e al centro delle ricerche del libro Orfani Speciali (Franco Angeli, 2017) di Anna Costanza Baldry, docente di Psicologia sociale e giuridica all’Università Luigi Vanvitelli di Napoli e criminologa. Come si legge nel saggio, non si conosce il numero esatto degli orfani di femminicidio: il progetto «Switch-Off» ne ha censiti mille e seicento, ma il numero è parziale. All’inizio del 2018 è stata approvata una legge in loro favore, che prevede fondi per borse di studio, reinserimento lavorativo, assistenza psicologica e medica. A detta di alcuni familiari, come Renza Volpini, non si capisce come beneficiare di queste misure.
Quando è stato trovato il corpo, i nonni e lo zio hanno fatto sedere il bimbo di Jessica Poli sul lettone e gli hanno raccontato che la mamma era diventata una stella, che gli angeli l’avevano portata in cielo. Lui ha detto: «No, non voglio». Ha pianto. È stata l’unica volta. Da allora non ha mai più parlato dei genitori. Secondo gli psicologi, ha assistito ai maltrattamenti della madre e c’è il sospetto che fosse presente quando è stata portata al fiume. A sei anni ha fatto un disegno: da una parte del foglio ha ritratto una figura maschile con un coltello insanguinato e a terra un corpo tutto vestito di nero (Jessica Poli indossava un piumino nero lungo fino al ginocchio quando è stata assassinata), dall’altra ha disegnato dell’acqua e una persona che si allontanava guardandosi indietro, con il ghigno. Adesso vive in una casa–famiglia. La nonna va a trovarlo e si occupa delle spese, dall’acquisto dei libri di scuola ai vestiti.
Sono trascorsi ventisette anni da quando Rossana Jane Wade venne uccisa, a diciannove anni, dal fidanzato Alex Maggiolini. Era il 2 marzo 1991. Ritrovarono il corpo in un casello ferroviario abbandonato, nella zona di Fiorenzuola. Per la madre Letizia Marcantonio il dolore non passa mai. «Ho fatto io il riconoscimento. Rossana aveva il viso gonfio e livido. Anche quando era nata, col fatto che pesava quattro chili e due ed era in ritardo di undici giorni, era gonfia. Ho pensato: come è arrivata se ne è andata. E sono svenuta». Si asciuga gli occhi mentre racconta che l’assassino è tornato in libertà dopo dodici anni di carcere. Abita, in linea d’aria, a venticinque chilometri di distanza da lei. «Sono andata a vedere la sua casa, i suoi figli, i suoi cani. Lui ha una vita, mentre mia figlia non c’è più. In Italia le donne non valgono niente. Tutta la mia famiglia ha subito le conseguenze, il fratello di Rossana aveva diciassette anni all’epoca dell’assassinio e quasi moriva per il dispiacere». Dopo essere stata in televisione, avere partecipato a manifestazioni, fatto lo sciopero della fame, inviato lettere ai presidenti della Repubblica, promosso petizioni e ricorsi, Marcantonio è riuscita a fare condannare, per inadempienza, il ministero della Giustizia e la presidenza del Consiglio che le devono un risarcimento di centomila euro. Il Tribunale di Bologna ha riconosciuto che lo Stato non ha applicato la direttiva europea che prevede un indennizzo ai parenti delle vittime, nel caso il colpevole sia nullatenente.
Giuliana Reggio lavora dalla mattina presto fino a sera nel suo bar, a Reggio Emilia. Per parlare della figlia Jessica Filianti, uccisa a diciassette anni fuori da scuola dal suo ex ragazzo Luca Ferrari, con quarantadue coltellate, prende una pausa tra un cliente e l’altro. Tutto intorno il ricordo di Jessica: c’è una sua foto incorniciata, in sella a una moto, targhe varie e un appendiabiti colmo di magliette con il suo nome. Giuliana Reggio organizza ogni anno una fiaccolata in sua memoria, alla quale partecipano istituzioni, amici e abitanti di Reggio Emilia. Quest’anno, in via Buozzi, dove il 15 marzo del 1996 è avvenuto il femminicidio, ha fatto sistemare una targa con scritto: «Non c’è nulla in questa morte che ricordi amore». Inoltre promuove partite di calcio di beneficienza per finanziare attività di volontariato e borse di studio. Preferisce impegnarsi in queste iniziative dirette che legarsi ad associazioni. Viene chiamata ancora in televisione, ma non ci vuole più andare. «Non penso sia utile raccontare le solite cose perché così loro fanno audience. Non voglio essere compatita, non mi è mai piaciuto. Mi hanno cercata in molti, soprattutto all’inizio, anche Costanzo, ma dopo le prime esperienze ho rifiutato. È meglio un rapporto reale con la gente». Secondo Reggio le donne continuano a venire ammazzate perché le pene non sono abbastanza severe. «Sanno che dopo un po’ escono. Vorrei vedere cosa succederebbe se buttassimo le chiavi e li lasciassimo a pane e acqua. Invece dentro si laureano, escono e si rifanno una vita. L’assassino di Jessica adesso è un informatico e ha una figlia. Gli avevano dato l’ergastolo inizialmente, poi la pena è stata ridotta e tra sconti e buona condotta è stato in carcere sedici anni. C’erano le avvisaglie che fosse uno pericoloso e io infatti andai dai carabinieri perché volevo denunciarlo. Mi risposero che così lo avrebbero rovinato, era soltanto un ragazzo. E mia figlia, invece, cos’era?» Per lei nemmeno l’ombra di un risarcimento nonostante le spettino, dal femminicida Luca Ferrari, settecentomila euro.
Paola Caio ha conservato solo un piccolo carillon in ricordo della figlia Monica Da Boit, uccisa di botte a trentuno anni – calci e pugni che hanno provocato fratture e la rottura della milza con un estesa emorragia interna – dal compagno Giampaolo Regazzini. Era la notte del 14 ottobre 2005. Ha donato tutto il resto a chi ne aveva bisogno. «I giorni dopo l’omicidio sono stati insopportabili» racconta, mentre fuma sotto il portico della villetta di Malavicina di Roverbella, in provincia di Mantova. «Non si è preparati a un dolore simile, non si vive più come prima. Io sono stata arrabbiata con Dio per un anno. Dopo un lungo processo, ho cercato di trasformare la mia sofferenza in qualcosa di utile». Caio supporta ragazze e donne che la contattano chiedendo aiuto, va a parlare nelle scuole, ha partecipato a manifestazioni e presidi, promosso petizioni e per un certo periodo ha fatto parte di un’associazione. «Per uscire dalla violenza ci vuole un supporto adeguato. Quando si è dentro si crede che gli abusi fisici e psicologici siano la normalità e invece c’è un’altra vita possibile, fatta di sorrisi, abbracci, amore. Purtroppo le pene non sono abbastanza severe: io non ho mai chiesto vendetta, pretendevo giustizia, e non l’ho avuta». Regazzini è stato condannato a quattordici anni ma, con l’indulto del 2006, la pena è stata ridotta a nove. Gli abusi contro Monica Da Boit andavano avanti da tempo, anche in presenza di testimoni. Le forze dell’ordine erano state allertate, ma non è servito. «La tragedia ha coinvolto tutta la famiglia. Un’altra mia figlia ha sofferto tantissimo e mio figlio ha trascorso periodi difficili. Le spese giudiziarie sono state a nostro carico e il processo è stato doloroso, con offese che non voglio ricordare».
Foto di copertina: Giovanna Ferrari davanti al fiume Secchia, dove è stato trovato il corpo della figlia Giulia Galiotto © Copyright Stefania Prandi
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