Questioni di genere
L’amore è biunivoco e la molestia (anche verbale) indegna di un uomo
Voglio prenderla alla larga.
In queste settimane il racconto più letto negli Stati Uniti è “Cat Person” di Kristen Roupenian, ed è apparso sul magazine New Yorker. Un caso letterario che dovrebbe interrogarci, se è vero che i casi letterari – quelli puri, quelli che partono dalla sola scrittura – oltreoceano possono ancora realizzarsi: ma non è questo il punto. L’autrice era sconosciuta fino a ieri, non ha pubblicato neppure un romanzo, figurarsi; eppure il suo racconto è diventato virale: condiviso in numeri che si moltiplicano da sè, tutto e solo grazie ad una trama comune e quasi banale, che probabilmente ciascuno di noi ha conosciuto almeno una volta, da una posizione o da un’altra. Ed è proprio questo il punto.
È la storia di un date, di un primo appuntamento che rimarrà l’unico: genesi e incedere, e bruschi strattoni, rallentamenti e frenate; ascesa e immediato declino di un innamoramento. I personaggi: Robert, trentaquattro anni, conosce Margot, di venti. I due messaggiano, cominciano a conoscersi sullo schermo di un Iphone popolato da faccine: e già in questa fase emerge un talento letterario non comune, in grado di pesare l’equilibrio del rapporto, squilibrato ora da un lato, ora dall’altro, per via di una risposta mancata, un ritardo di qualche ora (“Margot didn’t like this; it felt as if the dynamic had shifted out of her favor”). Ogni vibrazione della ragazza (è sposato il suo punto di vista) è radiografata: ella è incuriosita dall’uomo, potrebbe piacergli, ci esce quasi per caso una sera, tutto accade rapidamente e nulla accade; Robert non forza la mano, appare un galantuomo, diremmo in Italia. È pronta per il primo appuntamento, quello vero.
Va malissimo. Nel corso della serata, Margot percepisce poco alla volta, ma distintamente, di aver preso un abbaglio, è a disagio con quello che, d’un tratto, gli appare un omone voglioso di fare sesso. Forse non è proprio così, Robert continua ad apparire – a me lettore – un galantuomo, vuole riportarla a casa (“I’m taking you home, lightweight”); ma a quel punto è lei a spingere: “vengo a casa tua?”, gli chiede; e lo fa perchè, nel suo ordine di idee, non può più tirarsi indietro, come se avesse ordinato del cibo credendolo dal sapore diverso, e non ne avesse più voglia.
Andarci a letto è per lei disastroso, per lui straordinario: punti di vista, è sempre così, funziona così. Lui adesso sembra preso, lei si fa riaccompagnare a casa. Non vuole più vederlo, e dopo alcuni giorni di texting unilaterale, Robert si rende molesto. Il racconto si chiude con la serie disperata dei suoi messaggi – disperati perchè lui ci credeva – lasciati ciascuno senza la propria risposta: ingiustamente, diremmo se nel sistema delle relazioni umane e sentimentali esistesse il metro della giustizia (non esiste, prendiamone atto).
Il racconto si chiude con questa batteria di messaggi:
Are you fucking that guy right now
Are you
Are you
Are you
Answer me
Whore (Puttana).
Veniamo a noi adesso. La qualità letteraria è elevata anche se gioca sulle sintesi, su parole che sono bisturi; e lo è forse proprio per questo. “Queste autrici usano la scrittura come un microscopio, e l’esperimento di cui seguire gli sviluppi sul vetrino sono le relazioni”, ha scritto Clara Mazzoleni su Rivista Studio. Ma siamo immersi nel clima post-Weinstein, ed un racconto impostato in termini talmente oggettivi (l’autrice non dà giudizi: Margot è una vittima, l’altro il cattivo? Dipende dal lettore) non poteva certo interessare per lo spessore della tecnica narrativa: ha scatenato invece partigianerie tra le lettrici attorno alla domanda: poteva Margot rifiutarsi di andare fino in fondo, non avendone voglia? Gli altri, i lettori, invece: i più stanno a guardare, qualcuno avanza una difesa d’ufficio. Il genere tende ad approfittarsene, perchè nasconderselo. Ma siamo immersi anche nell’ipertrofia della comunicazione, nell’opinionismo diffuso, tanto da nullificare le opinioni di ognuno.
E allora provo a cambiare la questione di fondo, e parto dalla fine. Perché a me ha colpito la fine. Davvero un uomo può così liberamente insultare una donna? Davvero lo può, anche se sedotto e abbandonato, anche se innamorato senza riscontro, anche se umiliato, reso nudo davanti ai propri sentimenti? Perché noi ci appassioniamo alle grandi questioni generali (femminicidi, molestie seriali, discriminazioni di genere ecc), guardiamo sempre allo svelamento di vicende altrui – con un filo di piacere, perché altrui – che sono sempre troppo più grandi di noi (Weinstein e, più recentemente, epigoni di casa nostra), ma siamo tanto miopi da non capire che sono gli atteggiamenti di ciascuno, nel nostro piccolo e nelle nostre miserie quotidiane, a creare le tendenze: ad incanalarsi, a “massificarsi”.
Partiamo da noi, e rispondiamoci. La risposta è no. Non può. Per due ordini di ragioni.
È ovvio che la donna sia qualcosa di diverso dall’uomo: non voglio certo richiamare Petrarca, Ariosto, Leopardi, le loro evocazioni quasi mistiche al genere femminile; sarei scontato se lo facessi, ma non sarei banale, sia chiaro. Mi limito a riprendere qualcosa di molto meno noto: quello che pensava Arturo Toscanini della Donna, avendo comunque in mente la sua amante Ada Mainardi: come l’arte, proviene da un’altra sfera, ed è una musica dolcissima. E Toscanini venne infine abbadonato da Ada, dopo cinque anni di passione travolgente: e a me risulta che abbia continuato a venerarla fino alla fine dei suoi giorni.
La donna non può essere liberamente molestata e, all’apice, insultata, non deve esserlo e basta, e non deve esserlo giocoforza quando un amore finisce, non comincia, deve essere soffocato per mancanza di interesse nella metà femminile (la quale, per intenderci, non può mai aver torto, se l’amore è necessariamente biunivoco): perché – ed è questo il secondo, più importante punto – l’amore non corrisposto, l’innamoramento che non può generare una storia, rimane un principio di miracolo. Le sensazioni che seguono sono viaggi continui e stupefacenti nell’eternità: certo, viaggi a vuoto, ma che importa.
Ecco, questa è l’unica pecca del racconto, anche se è pura fiction. Lo dico da lettore che tifava per Robert perché all’inizio si comportava da galantuomo: con il suo “whore” finale il personaggio è stato fatto scadere. Almeno ai miei occhi, lui diventa indegno di essere uomo dotato di discernimento – altrimenti, saremmo scimmie, e sarebbe tutt’altro discorso. Una storia (anche se mai nata) si chiude con classe ed onestà intellettuale: non si chiude molestando o insultando, ma ringraziando. Si ringrazia perchè innamorarsi vuol dire spalancare la mente ed innescare processi creativi. È come un’epifania, perché si concretizza un modello teorico fin lì soltanto idealizzato – un miracolo, appunto.
Si dice “grazie” per le sensazioni vissute, uniche nel loro genere, si gira pagina e si riprende a camminare. E mai voltarsi indietro; al più, si continua ad adorare segretamente: sarà terriccio fertile per grandi espressioni artistiche. Toscanini docet.
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