Costume
La violenza è uno scherzo: il problema della questione di genere in Italia
Il caso delle molestie ai danni di donne e ragazze al raduno degli alpini di Rimini e a Torino all’Eurovision ha riaperto il dibattito pubblico sul tema della violenza di genere.
Dibattito aperto su cosa sia o non sia una molestia, le scuse ufficiali del corpo degli Alpini, opinionisti che hanno invece ritenuto di rimarcare un distinguo fra “complimento grezzo” e violenza. Ancora una volta la questione però si è limitata all’analisi dei singoli fatti di cronaca, approfondendo solo raramente il tema in senso più ampio. Come se la questione fosse davvero trovare un discrimine fra ciò che può essere o meno definito violenza e, soprattutto, come se il percepito – a livello individuale – non avesse rilevanza ai fini della questione.
È però davvero possibile (e sensato) ascrivere il fenomeno, senza sfumature, o alla violenza di genere, oppure banalizzarlo riducendolo a semplice maleducazione o, ulteriore passaggio, sminuire le donne in quanto incapaci di “stare al gioco scherzoso”?
Il singolo episodio non è che la punta di un iceberg, che affonda le sue radici in un approccio culturale fortemente maschilista, ancora maggioritario nel nostro paese, sia da un punto di vista educativo che sociale. In un contesto in cui, nella narrazione pubblica, la donna che subisce violenza deve giustificare le sue scelte – il modo in cui era vestita, le sue frequentazioni, gli atteggiamenti – e dove ancora è abitudine invalsa utilizzare un linguaggio giustificativo, legato a temi come passione e gelosia, per descrivere delitti e aggressioni nei confronti del genere femminile, risulta difficile immaginare un cambio di registro su vicende di gravità inferiore, stando allo stretto punto di vista penale. Queste ultime però sono la premessa alla creazione di un diffuso senso di insicurezza da parte delle donne che, a tutti gli effetti, percepiscono – non per loro volontà o inclinazione, ma per costrutto sociale – la minaccia di genere nei loro confronti. Se non si ha infatti la garanzia di essere creduti, di essere difesi e aiutati in caso di torto subito, che tipo di vissuto si dovrebbe avere nel quotidiano?
Immaginiamo per un’istante di vivere in un contesto in cui, a seguito di un furto, il derubato venisse implicitamente accusato di aver provocato il ladro e, in base a questo, venisse valutato come compartecipe del torto subito. Probabilmente questo porterebbe a un aumento del senso d’insicurezza e a una modifica radicale dei comportamenti delle persone. Un complimento per l’auto nuova o la richiesta sul modello di un orologio probabilmente vissuti come una minaccia.
La costante messa in discussione della versione dei fatti a cui sono sottoposte le donne, mediaticamente e non, in occasione di episodi di violenza genera le stesse premesse di contesto. A questo si affianca un portato culturale che, solo con grande fatica, negli ultimi decenni si sta lentamente modificando, quello che giustifica i comportamenti maschili come frutto di eccessiva esuberanza, bisogno ancestrale di territorialità, intima indole.
Una tradizione antica per la quale, estremizzando, le donne in fondo sono sempre un po’ facili, gli uomini porci. Una visione che dovrebbe essere interesse, in primis maschile, modificare. Il problema da porre è quindi legato ai passaggi necessari per uscire da queste categorie, liberando la donna da un ruolo di potenziale vittima e l’uomo di potenziale aggressore, ruoli che vincolano il genere femminile alla subalternità, quello maschile alla prevaricazione. Lo strumento è prima di tutto culturale. La distinzione fra complimento e molestia dovrebbe essere chiara a partire dai primi anni di formazione, garantendo, di contro, uno spazio di sicurezza – tanto per le donne quanto per gli uomini – in cui l’esercizio della responsabilità personale rispetto alle proprie azioni sia la prassi. Tornando all’esempio di prima, ci sarà sempre un ladro pronto a rubare pur sapendo di compiere un atto illecito, ma il contesto sociale, la comunicazione, la società in genere non metteranno mai in discussione le ragioni del derubato.
A chi sostiene quindi che considerare un complimento sboccato alla stregua di una violenza fisica sia sbagliato, occorre ricordare forse il trattamento subito da tante donne morte per femminicidio e fatte a pezzi dall’opinione pubblica, purtroppo spesso con la complicità dei media.
Il recente caso di Carol Maltesi è stato in questo senso emblematico. Un omicidio “depotenziato” nella narrazione dalla professione che la donna svolgeva. Quasi che la colpa di questo delitto fosse, in parte, da ascrivere anche a un suo comportamento. Impossibile quindi, in un contesto come questo, in cui anche un delitto rischia di trovare parziale giustificazione nella chiacchiera da bar, distinguere in modo netto cosa sia o non sia minaccia personale. Il cambiamento però deve partire dai singoli comportamenti, dai percorsi educativi, con uno sforzo da parte di tutta la comunità per il superamento di schemi apparentemente innocui, terreno fertile per mantenere uno status quo di discriminazione.
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