Costume

La “gender equality” nell’italiano nuoce al femminismo?

22 Marzo 2018

Le parole non generano cambiamento, lo riflettono – casomai – così come la lingua, nei suoi vari momenti storici, da voce a una comunità di parlanti. Oggi torna tristemente all’ordine del giorno (tristemente perché in seguito all’ennesimo barbaro assassinio consumatosi all’interno di una coppia, che ha visto come vittima una ragazza di vent’anni) il dibattito sull’uso di genere della lingua. Sul banco degli imputati non solo termini e locuzioni utilizzati dalla stampa per descrivere un fatto di cronaca nera (omicidio d’amore, accecato dalla gelosia, delitto passionale), ma la stessa lingua italiana d’uso.

Da una parte infatti c’è chi si limita a puntare il dito contro l’utilizzo di una terminologia impropria per solleticare il morboso interesse del pubblico dei lettori, dall’altra chi sostiene che tutto nasca da un mancato adeguamento dell’italiano alle mutazioni sociali avvenute negli ultimi decenni. Per questi ultimi il problema non starebbe tanto (o solo) in un utilizzo settoriale della lingua, ma nella mancata volontà di riconoscere la diversità di genere nel lessico, mancato riconoscimento che comporterebbe una negazione semantica e quindi idenitaria del genere femminile. Omicidio d’amore quindi sarebbe solo l’ultimo tassello di un problema di sessismo lingustico che partirebbe dai primi anni di vita, quando ai più piccoli si insegna che esistono fornaio e fornaia, archeologo e archeologa, matematico e matematica, ma non medico e medica, architetto e architetta.

Il nesso fra questi due fatti non appare a prima vista stringente, ma implica – sempre secondo i sostenitori di questa linea – che a partire da un mancato riconoscimento lessicale della diversità femminile in un ruolo professionale/sociale ormai ampiamente accessibile alla donna, si possa sviluppare una diminuzione di valore dell’individualità femminle (soggetta al maschile quindi) creando così – per quanto inconsciamente – i presupposti per l’affermarsi di una “minorità” della donna e una sua subordinazione al maschile. Maschile che, dalla sua, si sentirebbe linguisticamente supportato nel suo senso di superiorità fino ad arrivare al possesso e all’esercizio – in extremis – di potere violento sulla donna. Complesso vero?

Facciamo un passo indietro e torniamo alle premesse. La lingua riflette una comunità di parlanti. Prova è il fatto che – prima della globalizzazione – molte lingue prevedessero prestiti lessicali o calchi per indicare oggetti non presenti nella cultura dei parlanti. La controprova è che quando, per questioni di nazionalismo ad esempio, un governo o un’entità giuridica hanno cercato d’imporre un termine alternativo rispetto a quello d’uso comune (percepito però come efficace dai parlanti), questo non ha minimamente attecchito. Un esempio? Il nostro bar. Il termine è d’uso così comune che difficilmente siamo portati a pensare che non sia italiano. Eppure deriva dall’inglese ed è stato importato, insieme all’uso del bar come locale diverso rispetto ai caffè e alle osterie. Quando durante il fascismo vennero bandite tutte le parole straniere dall’uso quotidiano, si sostituì a tavolino bar con “taberna potoria”. Un successone visti gli esisti attuali.

La lingua insomma, come un organismo vivente soggetta a evoluzione o involuzione, ha rigettato l’imposizione semplicemente non facendo uso del termine.

Tornando al nostro tema questo potrebbe significare che nessun intervento può essere fatto per migliorare la situazione di discriminazione presente – ancora oggi – nella lingua italiana. Niente di più sbagliato. Solo non si può pensare di curare un problema a partire dalla sua semplice manifestazione esterna. E la lingua è “solo” una manifestazione esterna di uno stato della società. Il fatto che in italiano non esista il termine medica, ma esistano termini femminili connessi alle specializzazioni è, in questo senso, storicamente indicativo. L’accesso alla professione medica infatti è stato interdetto alle donne fino a tempi abbastanza recenti, mentre nel momento in cui in medicina nel corso del Novecento si sono diffuse le specialità in ambito di percorso accademico, diverse donne avevano già conseguito la qualifica e molte altre avevano libero accesso a questa carriera. Abbiamo quindi pneumologo e pneumologa, cardiologo e cardiologa e i termini neutri come fisiatra, pediatra, geriatra. Il fatto che ora la percentuale di donne medico al di sotto dei 35 anni sia superiore (seppur di poco) a quella dei colleghi non ha implicato, ad oggi, un mutamento lessicale d’uso tale da rendere corretta la forma “medica”. Forse perché, sempre nella prassi, non viene ritenuta dirimente questa condizione. Ci basta dire “Sono stata dal medico” oppure “Sono stato dall’androloga”. Per altre professioni la lingua d’uso ha deciso diversamente. Così nel 1940 le prime 14 donne architetto italiane (l’architettura era ritenuta una professione non adatta al genere femminile) venivano definite “architettrici”. Il termine è poi morto, così come – fortunamentame – la discriminazione professionale, ma non è stato sostituito da un sinonimo. Architetto è semplicemente, nella percezione, diventato un neutro, così come elettricista o geometra. La lingua non aveva, evidentemente, bisogno di esprimere una specifica funzionale tale da implicare un cambiamento. Diversa la storia di ostetrica, che non conosceva prima del dopoguerra un corrispettivo maschile essendo la professione appannaggio quasi esclusivamente femminile. Ma essendo percepita come piuttosto importante – in certi momenti della vita – la distinzione fra un ostetrico e un’ostetrica (probabilmente più di quanto lo sia quella fra architetto e architetta (?)) il termine si è linguisticamente diffuso.

Le vicende evolutive sono più banali di quanto si possa pensare, fuori e dentro i confini della lingua. Così nell’italiano d’uso il trapassato remoto (salvo in alcuni contesti regionali) è sostanzialmente morto e fra i tanti tempi verbali esistenti per descrivere il passato l’imperfetto la fa da padrone. Imporre l’uso quotidiano del trapassato remoto ci sembrerebbe quantomeno affettato; immaginate di raccontare a un vostro amico al bar la seguente scena “Quando ebbi sceso le scale vidi che la porta era aperta” riferendolo a un fatto banale avvenuto qualche anno prima. Corretto, ma affettato. Forse questo testimonia un cambiamento della nostra percezione del passato? Forse. In ogni caso è la lingua a rispondere a un cambiamento, non viceversa. A scuola ci viene insegnata l’esistenza del tempo verbale, nel quotidiano non la esercitiamo per uso e – forse – per mancata percezione.

Insegnare la storia delle parole potrebbe, ad esempio, portare grandi benefici anche alla causa di genere. Spiegare perché nella lingua italiana non esistano certe professioni al femminile costringerebbe a parlare della storia delle donne, del difficile percorso verso la parità, della lotta per i diritti. Un po’ più complesso che risolvere la questione con una desinenza. Inoltre, questo politicamente corretto, potrebbe giocare a sfavore della causa femminista: si potrebbe infatti pensare che, con la comparsa di un termine “paritario” si sia conseguita una reale parità. A posto così insomma. Invece nomina sunt consequentia rerum. In questo caso però i fatti sono ancora lontani a venire.

Torniamo ora ai termini di genere. Se infatti una maggior attenzione andrebbe posta nell’uso del linguaggio dei media, questa attenzione non dovrebbe risiedere tanto nell’accentuazione di un dato di genere (così come di etnia in alcuni casi, pensiamo ai titoli “Spacciatore nigeriano arrestato per…”), ma nella corretta descrizione del fatto. L’aggravante nell’omicidio di una donna da parte del marito non dovrebbe risiedere nel genere, ma nella relazione e la relazione dovrebbe sempre essere considerata – giornalisticamente parlando – aggravante. La gravità del fatto insomma risiede nell’omicidio (in primis), di una familiare (in seconda istanza). Le motivazioni, il genere, l’età, il colore della pelle, la religione, non dovrebbero essere, giornalisticamente, questioni rilevanti da un punto di vista del messaggio sociale. Ma stiamo parlando di giornalismo e i giornali rispondono alle regole di mercato, il mercato a un dato sociale esistente e il dato sociale esistente è che l’indignazione di fronte a un omicidio, nel 2018 in Italia, è superiore se l’assassino è straniero, la commozione se la vittima è giovane (magari donna e bella), la compassione nei confronti dell’assassino assurdamente cresce se la motivazione del gesto risiede nella “gelosia”.

In tutto questo la lingua c’entra poco. Abbiamo le parole assassino, carnefice, omicida e aggettivi come brutale, violento, folle. Non è una carenza della lingua, ma – se mai – della società.

E così arriviamo al linguaggio di genere, che – per alcuni – rappresenterebbe un buon viatico verso una società più paritaria. Un’imposizione linguistica a tavolino non risolve le cose – lo racconta la storia della lingua – e anzi può essere percepita, dalla società, in modo svilente e quindi trasformarsi in qualcosa di controproducente. Medico è un termine maschile grammaticalmente parlando, non lo è più socialmente. Il suo significato (concetto) ha confini più ampi del suo significante (parola). Per gli appassionati di grammatica storica verrebbe da chiedersi se, addì 2018, non sia riemerso, da qualche lontano meandro il tanto odiato (dai liceali) neutro latino. Almeno stando alla percezione che abbiamo noi parlanti. Utilizzare termini come medica, architetta, suonerebbe come utilizzare elettricisto o farmacisto. Si può provare, certo, ma probabilmente farebbero la fine di taberna potoria e questo non cambierebbe altre e fondamentali questioni legate al ruolo della donna nella società. Non cambierebbe nulla della:

  • parità salariale
  • uscita dagli stereotipi di genere (tacchi, gonne, trucchi e belletti VS virago)
  • parità nel servizio di cura
  • diritto alla conciliazione
  • progresso di carriera
  • diritto alla salute (procreativa e non)
  • diritto a una giusta rappresentanza negli organismi di governo e corpi intermedi
  • diritto alla formazione
  • diritto all’autodeterminazione

Forse è più facile che avvenga il contrario in fondo. Forse è più facile che un giorno, quando avremo finalmente affrontato con coraggio e a viso aperto questi temi che – salvo l’8 marzo – nessuno ha davvero voglia di affrontare (dimostrando come rispetto alla questione femminile prevalga ancora, sempre e comunque, un atteggiamento assistenzialista e paternalista che vede nelle donne delle “minori” da difendere e proteggere, ma solo finché questo non mette davvero in discussione lo status quo), allora la lingua cambi.

O forse a quel punto non sarà necessario, perché ci vedremo tutti rappresentati – nel rispetto delle nostre differenze individuali che vanno molto al di là del sesso di nascita – dai nostri percorsi e dalle nostre scelte personali. Scelte libere, speriamo come saranno allora le donne.

 

Sulla necessità di un adeguamento al linguaggio di genere contro il sessismo della lingua italiana si veda Cecilia Robustelli

Sui dubbi rispetto all’uso di genere della lingua Elisabetta Santori per MicroMega

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