Costume
“I’m a man I’m not a gay”: Stefano Gabbana sei proprio sicuro?
Non voglio banalizzare le parole di Stefano Gabbana che mi hanno colpito perché pongono un tema vero: quanto l’identità sessuale o meglio dire l’orientamento omosessuale deve caratterizzare (secondo il famoso stilista milanese, “etichettare” ) una persona?
In teoria una persona dovrebbe essere definita e definirsi per tutt’altro, ma ciò, per l’appunto, solo in teoria perché questo ragionamento presuppone che si viva in una società ove l’obbiettivo della uguaglianza sia non solo stato raggiunto ma del tutto consolidato.
Purtroppo in Italia, ma con diversi gradi di gravità si potrebbe dire ovunque, questo livello di civiltà è ben lungi dal venire traguardato.
La legge sulle Unioni Civili, se da un lato ha consentito al nostro paese di fare un balzo in avanti sulla erta salita della scala evolutiva sociale, dall’altro ha pericolosamente anestetizzato quella componente antagonista che per anni aveva caratterizzato il movimento omosessuale nostrano.
La diversità che deriva anche dall’orientamento sessuale e che è cifra distintiva anche di una diversa sensibilità, di un diverso modo di interpretare il mondo, e di conseguenza della creazione di una cultura differente, rischia una pericolosa marginalizzazione, tutta giocata a favore di una opacità sessuale tranquillizzante perché sostanzialmente imbelle, addomesticata e prona ai dettami del senso comune.
Stefano Gabbana non si erge quindi a portavoce di un moderno superamento delle categorie in uso ( gay, etero, bisex) che favorisca davvero l’affermarsi di una diffusa tolleranza e di un progresso nel campo dei diritti umani , ma semplicemente si fa fautore di una eterosessualizzazione dei diversi orientamenti esistenti in fatto di sesso.
Non mi pare onestamente un passo in avanti, ma semplicemente una versione meno drammatica dei processi di doloroso camuffamento cui erano costretti gli omosessuali negli anni 50, quando si contraeva matrimonio per finire a far la fila nei bagni pubblici delle stazioni.
Quando la diversità viene sterilizzata in nome di una presunta libertà individuale di evitare categorizzazioni che non piacciono, finisce per perdere la sua portata politica, viene cioè rispedita nei bassifondi del nostro vivere sociale con rischi altissimi per chi, e sono ancora tanti, combattono ogni santo giorno contro il pregiudizio, il bullismo, o solamente la fragilità del proprio essere.
Non stupisce che anche chi potrebbe esercitare un ruolo diverso, essendo in linea puramente accademica un intellettuale, come Ferzan Ozpetek corra a portare acqua a questa tesi ritenendo, pure lui, superata la definizione di “gay”.
Basta paragonare un qualsiasi film di Ozpetek con l’ultimo, bellissimo e dolente, 120 Battiti al Minuto di Robin Campillo per capire come il regista turco abbia sempre puntato ad una facile pacificazione, ad un accordo al ribasso con le contraddizioni del presente e quelle del passato, veicolando una immagine di normalità (che sa tanto di normalizzazione) per guadagnare il plauso e l’accettazione della maggioranza non sempre silenziosa, ma incontrovertibilmente eterosessuale o eterosessualizzata che dir si voglia, del pubblico.
Onestamente non credo che indossare una maglietta griffata con su stampato: I’m a man, I’m not a gay servirà oltre che a risultare molto fashion, anche a spezzare le tenaci resistenze di chi ancora connota il diverso orientamento sessuale come una colpa. Più probabile invece si assista ad un altro capitolo del processo di occultamento del valore prezioso e contemporaneamente spinoso delle diversità, magari sotto una montagna di rassicuranti glitters.
Di questo passo però continueranno gli episodi di intolleranza e discriminazione e, aspetto da non sottovalutare, saranno derubricati appunto ad episodi e non a sintomi di un malessere di una società che non evolve perché, a prescindere, rifiuta il confronto dialettico fra le sue diverse anime, fra maggioranza e minoranze, sposando acriticamente la causa di una precaria omologazione.
Non bisogna smettere di puntare alla edificazione, mattone dopo mattone, di una cultura della diversità. Non è una questione di appellativi, nomi, nick, magliette o slogan, ma del prendersi cura oltre che della propria anche dell’altrui felicità.
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