Filosofia

il tempo delle donne

26 Marzo 2021

Caro Cigno nero,

scrivo dopo aver letto uno scambio su questa rubrica all’inizio del mese, in cui si parlava del tempo rallentato al tempo del Covid. Se il tempo è importante per la costruzione della personalità dell’individuo, se quindi oltre al tempo oggettivo e uguale per tutti, c’ è quello soggettivo, perché ogni persona ha un modo tutto suo di viverlo, in che senso oggi, in alcuni contesti, si parla di “tempo delle donne”? Cosa si intende?

Grazie,

Maria Elena

Cara Maria Elena,

si sente parlare tanto del “tempo delle donne”, ma i sensi, i contesti e i toni con cui ci si riferisce a questo virgolettato sono talmente diversi da rendere difficile una risposta che non somigli a un puzzle di considerazioni.

Nello scambio cui fai riferimento, Bergson ci aiutava nella distinzione tra tempo oggettivo, quantitativo, misurabile e impersonale, e tempo della coscienza, soggettivo, anarchico e interiore.

Potremmo cominciare dal considerare il tempo delle donne in un’ottica quantitativa, e chiamare in causa, ad esempio, le statistiche in merito all’occupazione femminile. Le già sfavorevoli percentuali, nell’ultimo anno di pandemia hanno reso ancor più evidente lo squilibrio di genere. Inoccupate o disoccupate, una cosa salta all’occhio: sembra che le donne abbiano un sacco di tempo a disposizione. Eppure i sondaggi sul tempo libero ci dicono che le donne ne hanno meno rispetto alla categoria maschile. Come è matematicamente possibile? Inoltre, se da donna guardo i dati di quelle ore libere e mi domando dove diamine siano in mezzo ai giorni della settimana, comprendo che per far tornare i conti basta fare un collage delle manciate di minuti frammentati nel turbinio delle occupazioni e preoccupazioni quotidiane, ordinarie e soprattutto straordinarie.

Conviene allora abbandonare il tempo oggettivo, perché il tempo non sarebbe l’enigma che è, se ridotto a mera questione di quantità. Dicevamo in quello scambio che il suo mistero sta nella “contemporaneità” del tempo oggettivo con quello soggettivo, nella loro simultaneità, cioè nella convivenza di queste due dimensioni dentro la stessa esistenza. La grande differenza del tempo di ciascuno, allora, è nel modo in cui esse si intrecciano.

E le donne sono brave nell’intreccio. Da sempre maestre di tessitura, per inclinazione naturale o storica che sia, ordiscono i fili degli orologi con quelli della vita, generando un tempo diverso, capace di moltiplicare le ore della giornata come i pani e i pesci pur facendole restare dodici. Si tratta dell’arte del tenere assieme: il cucchiaio del sugo e il messaggio per l’amica in difficoltà; una pratica di lavoro al pc e la Dad di una figlia e/o di un figlio; il volante dell’automobile e le idee per un nuovo romanzo. E quest’arte del tenere assieme, del legare sempre, filando, tessendo, perfino ricucendo gli strappi per poi magari ricamarci sopra, non è mai vissuta come attività che occupa il tempo, come se questo fosse qualcosa che abbiamo, bensì come modo di essere, perché il tempo, in fondo, è ciò che siamo.

Oppure la tua domanda si può leggere in un altro modo ancora, interpretando quel “tempo” del “tempo delle donne” in una accezione storica, come la definizione di un’epoca. Temi che erano di nicchia nei primi femminismi si sono trasformati, ampliati e problematizzati: femminicidio, violenza e discriminazione non sono certo figli della nostra epoca, ma oggi hanno una voce, hanno un nome. E nominare le cose vuol dire farle esistere. Allora ben venga che si parli anche del “direttore” o della “direttrice” d’orchestra, come delle 8 ministre sui 23 incarichi dal governo Draghi. Insomma lo sforzo di smontare il discorso fallologocentrico cementato dentro le abitudini più comuni non è più prerogativa degli specialismi, ma è diventato un sentire diffuso.

Proprio questo decisivo passaggio storico e culturale, però, ci indica che il tempo delle donne ha ancora da venire. Se ci pensiamo, i “tempi” della storia sono stati sempre definiti dopo, mai nel durante: è solo dopo le rivoluzioni ‒ tanto per fare un esempio ‒ che c’è stato il “tempo delle rivoluzioni”, non nel mentre che accadevano.

Potrebbe dunque succedere che tra trent’anni questo che viviamo sarà definito il “tempo delle donne”, ma forse non è neppure auspicabile, perché il “definire” è tanto, forse troppo, imparentato col “finire”. Dopotutto la storia, quella che abbiamo sempre studiato e si continua a studiare ‒ perché è la storia che è stata ‒ ha rispecchiato solo la metà dell’umanità, e ce lo dicono tutti i protagonisti (uomini) di ogni libro di testo che si insegna a scuola. Eppure continua a chiamarsi “storia” e non “tempo degli uomini”, a significare che questo capitolo lungo millenni non si è ancora concluso.

Da un punto di vista filosofico, il pensiero della differenza ci fa notare come troppo spesso la legittima richiesta di parità, che è sul piano dei diritti, transiti per una imitazione sul piano dell’essere. Ma si tratta di una vicolo cieco, perché parlare, pensare e agire come uomini significa inevitabilmente uscirne difettate, manchevoli di qualcosa. Uomini e donne sono diversi sul piano dell’essere, per cui non si possono descrivere mettendoli in relazione gli uni con le altre, anche perché la relazione in realtà è sempre delle altre rispetto agli uni, in base a ciò che hanno in più, ma soprattutto che hanno in meno, col rischio di cristallizzarle nel ruolo di “altre” rispetto all’Uno, al Medesimo.  Sembrano sottigliezze, ma ‒ a pensarci ‒ una cosa è descrivere la notte come “un giorno a cui manca la luce del sole”, un’altra è descriverla veramente dicendo che “è fatta di luna e di stelle”.

Allora, invece di parlare di un “tempo delle donne”, sarebbe molto bello tra cent’anni leggere di un “tempo degli uomini” per considerarlo un capitolo chiuso. E , nel mentre, vivere un tempo senza nome, perché l’umanità tutta non ha bisogno di un nome che definisca, perché non finisce. Non ha bisogno di essere nominata. È.

La storia deve necessariamente seguire un processo dialettico, per cui ad una tesi (tempo degli uomini) si opporrà un’antitesi (tempo delle donne), e ne scaturirà una sintesi che contiene e supera i due momenti? O possiamo immaginare una storia altra, meno razionale di questa, quindi meno logica, meno agonistica, e anche meno prevedibile?

Irene Merlini

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