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Il mestiere di essere donna

9 Marzo 2019

Pensate alla Caffarel al limone che ci offre gentilmente Trenitalia se viaggiamo in Executive e compriamo l’Easy Gourmet Menu. Pensate alla sensazione tragicomica, surreale e al limite del fantozziano, quel pensare che una caramella in omaggio, per di più a patto che si spenda un certo quantitativo di soldi, possa essere una geniale trovata di marketing o un regalo gradevole per celebrare una categoria che, per configurazione e tipologia di festività, non dovrebbe essere ulteriormente mazziata suddividendola in base al suo potere d’acquisto.

Non è la caramella in sé a fare tristezza: senza pubblicizzazione dell’iniziativa, magari ritrovata inaspettatamente con un packaging dedicato a fine pasto, avrebbe anche potuto essere apprezzata nella misura in cui si possa trovare apprezzabile il sapore del limone dopo il caffè.

A offendere e suscitare un certo sorriso incredulo e privo di speranza è la mentalità dell’addestratore di scimmie, la stessa che applicherebbe il cumenda lanciando le monetine al mendicante senza neanche guardarlo in faccia perché gli spiccioli in tasca gli davan fastidio, facendo di quel gesto un vanto della propria generosità piuttosto che un reale atto di dono genuino.

Moltiplicate quella sensazione degradante, sconfortante e stancante per 364 giorni all’anno: benvenuti nel mestiere di essere donna.

La maggior parte delle volte, è un lavoro che si declina nell’addestrarsi a fare finta di niente: l’esempio più banale è quando ci capita di chinare la testa davanti al potere di un uomo fingendo sottomissione e ingenuità per una questione di ruoli; nella vita privata ciò accade con meno frequenza (si potrebbe ironicamente dire che è più probabile l’esatto contrario), ma nella vita pubblica cosa ci si aspetta da noi è molto più chiaro, ed è sempre più ovvio che ciò che ci si aspetta da noi non siamo noi, ma la versione più blanda, innocua e da comodino che possa essere facilmente prevedibile e gestibile senza particolari pericoli per la propria stabilità emotiva.

Quindi passiamo gran parte del nostro tempo a far finta di non vedere la violenza di certi sguardi lascivi sulla metro, di non vedere l’astio ben celato di colleghi che devono far fronte al loro senso di inferiorità, di essere meno sveglie e a conoscenza dei fatti di quanto saremmo in realtà per non rischiare di mettere a disagio i nostri interlocutori superiori; crescendo poi impariamo ad applicare questo approccio anche ad altri ambiti della nostra vita, come quando accettiamo un lavoro per necessità e facciamo finta che certe condizioni contrattuali ci vadano bene anche se sappiamo perfettamente che se fossimo nate diverse (cioè non noi), a parità di condizioni avremmo guadagnato molto di più, o come quando facciamo finta di non sapere che non siamo più amate ma abbiamo dei figli a cui regalare la felicità che con noi ha passato il turno.

Non si deve pensare a questo fingere come un atto di falsità: si tratta piuttosto di un modus operandi finalizzato ad un unico obiettivo quotidiano: superare tutto, comprese quelle piccole ma devastanti mancanze di rispetto, di considerazione e di possibilità aperte che capitano sempre con più frequenza di quanta potremmo ritenere accettabile se volessimo calcolarla come parte di un mero dato statistico. Se ognuna di queste dovesse toccarci, ne finiremmo devastate.

È un mestiere che per sua natura ci porta anche, fino ad una certa età, a sentire di dover dare ed essere sempre di più, forse per via della banale illusione che aumentando la quantità si raggiungerà una soglia tale per cui ciò che ci viene precluso per qualche preesistente sistema culturale ancestrale ancora oggi diffuso, sarà finalmente più alla nostra portata: e allora ci alleniamo ad essere più belle, più forti, più competenti, più stabili, più determinate, più amorevoli, più tolleranti, più comprensive, più progettuali, più concrete, più divertenti, più smart… Crediamo che il mondo ci voglia così, salvo poi scoprire nel tempo che pur essendo in superiorità numerica e mediamente più istruite, è sempre di uomini che si parla, e son sempre gli uomini che decidono per noi.

Passiamo la vita a fare i salti mortali per conservare qualcosa della nostra essenza quando per gli altri iniziamo a diventare la moglie, la mamma, il manager, a superare le nostre piccole battaglie quotidiane per far sì che un giorno la vita sia realmente alla nostra portata in una situazione dove dobbiamo mediamente impiegare tre volte il tempo, le risorse e le energie di un uomo per giungere al suo stesso posto; a cercare di vincere su un tavolo da gioco dove siamo perfettamente consapevoli delle cose che non vanno ma dobbiamo far buon viso a cattivo gioco l’80% del tempo, e tutto questo, per poi vederci offerta una caramella da Trenitalia, azienda che ci crea solitamente più problemi che servizi e che gode di una fortunata mancanza di alternative valide, la quale ci ricorda, con ironica amarezza, quella pochezza che il mondo altrettanto privo di alternative valide è disposto a sborsare per noi, giusto per sembrare paritario e far bella figura, alle soglie del 2020, nonostante il prezzo del biglietto che stiamo pagando per essere a bordo.

È questo che ferisce, ma è di questo che ridiamo, sapendo che nonostante tutto siamo abbastanza forti per riuscire a cambiare le cose un pezzetto alla volta con pazienza, con costanza e invisibilmente, ogni giorno.

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