Famiglia

il 2 giugno delle donne: con il diritto di voto, ma non con tutti i diritti

1 Giugno 2016

In questi giorni RAI TV dedica particolare attenzione all’anniversario della Repubblica mettendo al centro le donne. Il fatto che il 2 giugno 1946 si tennero le prime elezioni politiche per le quali votarono anche le donne è nel senso comune di tutti, l’affermazione di un nuovo protagonismo femminile nella società italiana.

Contemporaneamente i dati sulle violenze sulle donne registrate in Italia nel 2016, a cominciare dall’ultimo atto di violenza consumato su Sara di Pietrantonio, dicono molto della condizione generale delle donne nella società italiana: molte libertà formali, certamente una condizione di emancipazione, ma al tempo stesso  una condizione “a rischio”, comunque sub judice.

Delle donne che hanno fatto la storia italiana contemporanea non sappiamo quasi niente , ha scritto Dacia Maraini, presentando Donne della Repubblica (Il Mulino), un testo in cui le storie delle diverse figure di donne presentate sono funzionali a evidenziare le difficoltà, gli ostacoli, la dura lotta, per affermare un principio di pariteticità, comunque di pari opportunità. Così è per Ada Gobetti, per Teresa Noce, per Lina Merlin (le cui vicende in questo libro sono ricostruite rispettivamente da Eliana Di Caro, da Paola Cioni da Claudia Galimberti.

Ogni volta il tema è quello della passione per la politica, della battaglia in nome dell’e’emancipazione , de diritti civili, e spesso è la parabola poi della solitudine, dell’oblio, comunque di una politica che tutta “al maschile” non ne riconosce i meriti e spesso, in condizione di solitudine, le conduce all’abbandono della politica un “ritorno a casa” che ha il significato di difesa arroccata di un mondo e di de emancipazione politica e culturale (è il caso, appunto, di Lina Merlin).

Oppure si definisce  attraverso l’ostracismo, l’ “esposizione all’indice”. E’ il caso (raccontato da Federica Tagliaventi) di Giulia Occhini, la “dama bianca” la donna legata a Fausto Coppi e che nel 1953,  un’Italia che solo apparentemente oggi ci appare lontana, estranea, ma che invece è ancora forte “radicata”, comunque “non scomparsa”, condanna e punisce.

Ci sono anche storie di successo, come non definire Tina Anselmi o anche Nilde Jotti la storia di un successo, soprattutto perché iniziato son molte diffidenza. Un successo che è, tuttavia, il prezzo, di una solitudine e come a tutti coloro che partono svantaggiati il riconoscimento di un’eccezionalità,: il fatto cioè che esso sia la controparte di un lungo apprendistato a sopportare regole, o “esami” che non si danno per altri. Donne, talvolta, che pagano un prezzo alto anche per la loro ostinazione a essere una voce pubblica. E’ il caso, per esempio di Tina Merlin, la voce contro del Vajont abbandonata prima di tutto dal suo partito, dal suo giornale, che in solitudine combatte una battaglia all’indomani della tragedia (9 ottobre 1963) che solo trenta anni dopo le darà ragione, ma senza risarcirla di quegli ostracismi.

Perché è importante ricordare e sottolineare questa distanza tra la celebrazione o anche il risalto opportuno a quel voto e a quel momento di ingresso e una realtà invece ancora molto complicata, contraddittoria, assolutamente non consegnata alla storia?

Per vari motivi. Nell’atmosfera di celebrazione pochi oggi li ricordano ricordano, ma, invece, è bene non dimenticare. Essi segnalano in molti modi le contraddizioni ancora aperte della nostra realtà politica.

Primo dato. Le donne entrano in politica nella storia del’Italia repubblicana in “zona Cesarini”. Il diritto di voto alle donne giunge nella seduta del Consiglio dei Ministri del 30 gennaio 1945. L’Italia è ancora in guerra e tutta l’Italia settentrionale è ancora occupata. Tuttavia, quella decisione che passa praticamente senza discussione è parziale: nel decreto emesso in data 31 gennaio 1945 , infatti,  alle donne è riconosciuto il diritto di voto, attivo ma non quello passivo. Le donne possono votare ma non possono essere elette. Difficile dire che sia una distrazione. Quel diritto è riconosciuto un anno dopo con un decreto d’urgenza emanato il 10 marzo 1946, prima che si chiuda la porta che immette al referendum istituzionale – e che significativamente ne porterà 21 alla Costituente.

Secondo dato. Ancora se consideriamo i lavori della Costituente, tutti i passaggi che sanciscono la parità rispetto al lavoro (ma con alcune aree di lavoro, per esempio la magistratura, che a lungo spono rimaste  a esclusiva prerogativa maschile) ovvero gli articoli 3, 37, 48 e 51, avvengono con una unità del mondo politico femminile. Quell’unità invece si spezza sul piano ideologico – tra cattolici e laici – nelle discussioni relative ai rapporti tra i sessi nella sfera privata. Sono gli articoli 29, 30  e 31 dove rispetto al tema della famiglia rimane pressoché intatta l’inferiorità femminile che dal codice napoleonico passa senza variazioni significative  nella legislazione del Regno d’Italia. Nell’Italia repubblicana quel  passaggio non è stato mai indolore e avviene sulla base di laboriosi compromessi.

Terzo dato. Riguarda il ritorno a casa delle donne rispetto al lavoro. Si ripete nel 1946 una scena già vista nel 1919 quando il ritorno dal fronte ha come effetto il rientro forzato verso casa di una parte consistente del mondo del lavoro femminile che la guerra aveva portato “fuori casa”. Nel 1947 questo “rientro a casa”, significativamente,  non trova una difesa nemmeno da parte del movimento sindacale. Quella “freddezza” durerà a lungo nella storia dei cionflitti nel mondo del lavoro in Italia.

Se ne deduce che l’acquisizione del diritto di voto non risolve il problema dell’uguaglianza, ma soprattutto indica già quello che a lungo è stato, e continua ad essere, il pilastro intorno a cui si sostiene la società italiana, non tanto da un punto di vista formale o istituzionale, bensì valoriale e, dunque, ideologico.

Il pilastro è la famiglia segnata o contrassegnata da un ruolo non paritetico dei suoi componenti e fondata su una inferiorità di genere.

È significativo, per esempio, ciò che scrive Arturo Carlo Jemolo, esponente di rilievo della cultura cattolico-liberale, respingendo l’ipotesi di introdurre il divorzio nella legislazione italiana,  intervenendo nel 1945 su “Il Politecnico” di Elio Vittorini  e prefigurando ciò che poi sarebbe inevitabilmente accaduto: «Se ben vedo, la famiglia italiana è tra le istituzioni più robuste del nostro popolo … Mi pare che questo senso della famiglia sia andato sempre più rafforzandosi … Non soltanto la famiglia italiana è forte, ma lo è ad un punto tale che tutte le altre istituzioni ne restano al confronto indebolite; è come una capsula d’acciaio  che debba alla sua volta essere incapsulata entro una consecutiva capsula di involucri di materiale ben più fragile; l’omogeneità del tutto non ne guadagna».

In quella capsula d’acciaio restato compressi, o comunque inevasi anche alcuni dei fondamentali diritti civili delle donne sui quali a lungo non è stato possibile – in tutto il secondo dopoguerra – neppure iniziare una vera battaglia di emancipazione e di eguaglianza. Il resto è la storia di un dossier che rimane aperto.

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