Questioni di genere
Identità di genere: approccio psicologico e pedagogico
Picardi, Ceriotti Migliarese e Fusi continuano la riflessione sull’Identità di genere al Corso Interdisciplinare offerto dalla Pontificia Facoltà Auxilium per l’aa. 2024/25
“Identità di genere. Sfide e prospettive per educatori”: è il tema del corso interdisciplinare con il quale la Pontificia Facoltà “Auxilium” ha inaugurato l’anno accademico 2024-2025. https://www.pfse-auxilium.org/it/notizie/08-10-2024/corso-interdisciplinare-24-25-identita-di-genere/roma
La seconda giornata si è svolta sul tema “Identità di genere: approccio psicologico e pedagogico” https://www.youtube.com/live/SO7CyjtU4LQ?si=-TWpeqUfyWBz_gOg
Modera entrambi gli incontri Maria Grazia Vergari, della Pontificia Facoltà di Scienze dell’Educazione Auxilium. All’inizio di entrambi gli incontri saluta i presenti e ringrazia i relatori Piera Ruffinato, Preside della Facoltà.
Entrambi gli incontri sono stati aperti da due video introduttivi realizzati da Annalisa Picardi.
Nel primo si è presentato il Teen drama che è un genere narrativo, presente nelle serie tv, indirizzato agli adolescenti e ai giovani; si tratta di strategie comunicative usate per formare le nuove generazioni. Il linguaggio liquido gender è entrato nelle strategie di marketing delle piattaforme di streaming che utilizzano questi elementi per attirare a sé nuovi abbonati. Alla fine di tutta questa narrazione il corpo queer è diventato un prodotto da vendere.
Per i media non è tanto importante ciò che si vuole mostrare ma ciò che si vuole nascondere: il fatto che noi non siamo omologabili ma siamo unici e irripetibili.
Il secondo video, la cui narrazione è ispirata ai passaggi della Lettera Enciclica Dilexit nos di papa Francesco, ci ricorda che il passato non può ritornare. È utopistico pensare di ritornare nella società degli anni 90; dobbiamo entrare nell’ottica che questo tempo possa essere vissuto come opportunità.
La fluidità è una risposta confusa ma che ha inquadrato la domanda giusta presente nel profondo di noi stessi, una domanda antica.
Il primo intervento è stato presentato da Mariolina Ceriotti Migliarese, medico, neuropsichiatra infantile e psicoterapeuta (Milano), sul tema: “Identità di genere: prospettive psicologiche”.
L’argomento viene svolto da un punto di vista evolutivo, tracciando le linee evolutive che partono dall’infanzia.
Noi nasciamo biologicamente determinati dal maschile e femminile e arrivare a definire la propria identità e la propria identità di genere richiede due decenni di passaggi con un lungo percorso di identificazione inserito in un intreccio di relazioni, dove natura e cultura si sovrappongono.
La prima cosa per il bambino vive è la scoperta della differenza di un’identità sessuale. Questa scoperta si pone tra i 18 e i 24 mesi. Il bambino raggiunge una stazione retta, acquisisce un linguaggio che gli permette di dare un nome alle cose, dopo i primi mesi riceve l’educazione dagli adulti al controllo volontario degli sfinteri. Queste tre cose comportano una attenzione all’area genitale. Il bambino, anche molto piccolo, ha situazioni di erezione del pene che comporta un aumento dell’interesse e dell’attenzione.
È necessario per prima cosa conoscere come funziona il pensiero infantile. Il bambino non è un adulto semplificato. Il pensiero del bambino è un pensiero sperimentale, concreto, non accede all’astratto.
Per il bambino l’area genitale e quella escrettiva sono collegate. Il pensiero del bambino funziona per categorie semplici: “o…o”; è un pensiero che funziona per opposti e che gli permette di orientarsi. Il bambino divide il mondo in due: esiste il maschio e la femmina.
La seconda cosa che si chiede: perché esiste questa diversità? La risposta che il bambino si dà è quella reale, che corrisponde alla natura: questa diversità esiste per generare.
Il bambino si percepisce come portatore di qualcosa, la bambina si percepisce come mancante di qualcosa.
Il bambino ha la necessità di disambiguare di categorizzare: “Io sono maschio come il papà, io sono femmina come la mamma”.
I passaggi successivi: “è bello somigliare al papà” o viceversa, dipendono in parte da come l’adulto accoglie o rifiuta l’identità del bambino; ma dipendono anche da come gli adulti si confrontano tra di loro.
Se il padre non tratta bene la madre, il bambino realizzerà che non è bello essere una donna! Quando i minori assistono a delle violenze in campo familiare possono nascere delle ferite importanti.
È molto significativa l’intervista al registra Crialese che ha fatto un coming out sulla sua esperienza di transizione, raccontando la sua infanzia https://video.corriere.it/festival-venezia-crialese-racconto-mia-infanzia-mia-storia/27347c32-2c58-11ed-a881-0468ff338f41
Il percorso maschile e femminile si fa molto diverso.
Il maschio, che ama la madre, deve rinunciare ad essere come la madre per essere come il padre ed essere accolto dal padre o da una figura paterna con la quale si può confrontare per identificarsi; per il maschio una maggiore carica aggressiva è un aiuto al distacco dalla madre.
È molto importante che questo distacco psichico e non fisico del maschio dalla madre avvenga, perché in età adulta il maschio veda la donna non come colei che deve rispondere ai suoi bisogni (come fa la madre).
Più ampio è il problema dell’orientamento sessuale e dell’identità sessuale. Lo snodo principale è quello della preadolescenza. Il corpo diventa un corpo specificamente maschile o femminile durante la pubertà.
Tutta la fase della preadolescenza ha il compito di elaborare il tema della appartenenza personale al mondo maschile o femminile.
Il messaggio che viene recepito: il mio corpo cambia con la pubertà ed io devo assumere una mia identità.
Finché siamo nel mondo dell’infanzia c’è la presenza degli adulti; nella preadolescenza conta più il mondo dei pari e il mondo dei media; con la madre le bambine si confidano se il rapporto è buono, mentre i maschi sono soli perché i padri di solito si tengono fuori da questo confronto.
Quello di internet con il quale si confrontano i preadolescenti è un mondo di promiscuità e di violenza che non insegna la relazione.
L’amico/amica del cuore vengono spesso letti dal mondo adulto e dei pari caricandoli di valenza omosessuale; invece sono omoaffettive e questo stigma porta alla confusione.
Si noti bene, per molti adolescenti il desiderio non è tanto quello di essere di un altro sesso, piuttosto si manifesta come desiderio di rifiutare il proprio sesso. Indirizzare verso la transizione adolescenti che vivono questo malessere può non essere la soluzione, piuttosto un tragico errore. Quello che si rifiuta del femminile sono spesso gli stereotipi della femminilità, non l’essenza.
La prima percezione di sé del maschile e del femminile è diversa, il maschio è contento, la femmina si identifica nella mancanza. Per il bambino c’è la fierezza. La femmina si vive come mancante di qualcosa.
Questa iniziale percezione di mancanza segna la femmina e il negarla impedisce di superarla, lascia la ferita senza darle un nome.
Al menarca non viene più dato il significato simbolico in cui si educa la ragazza a riconoscersi portatrice di un grande potere, quello di generare; l’approccio corrente a questo “evento” è invece quello di medicalizzarlo.
Questo tema è un tema culturale ampio. È un’espressione del disagio del corpo e del disagio della sessualità.
“Approccio pedagogico all’identità di genere: sfide e strategie” è il tema del secondo intervento della sessione, quello di Emanuele Fusi, consulente pedagogico e formatore dell’Università Milano Bicocca e dell’Università cattolica di Milano, insegnante in un liceo di Monza.
Tutta questa questione raccontata come emergenziale che cos’è, come viene vissuta dai giovani che sono da noi narrati? È stata svolta una ricerca tra gli adolescenti i cui dati sono in fase di pubblicazione.
Cosa abbiamo capito?
Prima cosa: di questi ragazzi, circa 500 intervistati, la percentuale del 7% non si riconosce pienamente nel proprio sesso biologico e si descrive come non allineata; il 21% dice che è confuso sulla propria identità di genere.
C’è un disagio generalizzato dei giovani verso il mondo adulto. Non dobbiamo etichettare e patologizzare quella che è una parte decisiva dell’attraversamento dell’adolescenza. Questi ragazzi e ragazze vivono il cambiamento continuo, come in divenire; il che vuol dire che non sono tutti fluidi; in questa fase metamorfica noi dobbiamo pensare il cambiamento.
Il tema in cui ci stiamo approcciando: da un lato posizioni essenzialiste su un modo monolitico; dall’altro posizioni estreme che dicono che io mi produco come mi piace essere.
8 adolescenti su 10 ci dicono che vivere liberamente la propria identità di genere è importante.
Cosa significa: “liberamente”? Significa che non vogliono essere giudicati. Questa preoccupazione configura dunque in termini relazionali il loro porsi. Secondo significato: sono libero “quando posso esplorare”. Terzo: sono libero quando “posso fare ciò che voglio”. Dimensione relazionale, dimensione del movimento esplorativo, dimensione individualistica.
In questo senso gli adolescenti sono lo specchio di come la società degli adulti ha proposto loro un concetto di libertà. Ma gli adolescenti indicano il superamento del modello culturale chiedendo una libertà relazionale.
Dove trovano gli adolescenti le parole per parlare della propria sessualità? Molti di loro ci dicono che non le hanno mai tematizzate. Per parola intendiamo significati, immagini, immaginario.
Il 55% dichiara che ha tratto le informazioni di base dagli influencer. Questo ci dice dove stiano loro, ci dice dove gli abbiamo messi.
Indicatori: primo: la realtà virtuale; un quinto degli adolescenti giudica eccessivo il proprio uso dei social; questo determina in maniera non meccanica, in maniera deterministica, probabilistica: se abito troppo il virtuale è probabile che io stia meno bene. Questi ragazzi ci dicono che il loro modo di stare nei social è un modo passivo, nonostante tutta una letteratura che affermava che essi sostituiscono il mondo virtuale con quello reale. Per loro quello è un luogo di osservazione.
Loro ci dicono che la scuola è il luogo dove trovano informazione (40%) ma dove sperimentano mancanza di fiducia (70%). Altro dato più rilassato: 8 su 10 dicono che si fidano dei genitori.
Domande: qual è il contesto educativo nel quale ci troviamo? Da dove partire per un’azione educativa?
Questo è il punto. È evidente che siamo dentro un attraversamento storico, sociale, culturale, in cui abbiamo accelerato la messa in discussione sul nostro vivere, innanzitutto la questione se il vivere abbia un senso.
Certamente noi adulti, per primi, siamo disorientati. Questa è la realtà. Come la percepiamo? La percepiamo come pericolosa; abbiamo l’idea che la realtà sia così complessa e questo corrisponda ad un rischio. I dati dicono altro. Noi viviamo più a lungo e in migliori condizioni di come si viveva decenni fa.
Qual è la conseguenza di questo nostro “sentire” come adulti? È quella che ci conduce ad un controllo ossessivo dei figli con una iper protezione degli stessi. L’adulto per eccesso di premura con la sua protezione porta ad un isolamento dei figli, una sorta di “detenzione”.
Secondo: l’adulto si identifica con il figlio: non “sentiamo” i figli ma “ci sentiamo in essi” in maniera non generativa, non siamo più pedagoghi ma scivoliamo verso una direzione opposta, con uno schiacciamento della relazione che si fa congiunzione; va tutto bene quando l’adulto si sente in comfort; l’adulto entra in crisi quando i figli vogliono uscire dal cono di protezione; gli epiloghi delle dinamiche relazionali che sfociano in veri e propri conflitti genitori-figli è quella che conduce i primi a tentare di risolvere le sofferenze dei minori attraverso la sanitizzazione e farmacologizzazione su di loro.
Queste tre mosse insieme: iperprotezione che tende a negare i traumi dei conflitti naturali legati alla crescita (detraumatizzazione della vita), indifferenziazione nel rapporto genitori/figli vissuto in maniera “orizzontale” quasi come un “rapporto tra pari” e patologizzazione che porta alla sanitizzazione e alla farmacologia possono destrutturare i percorsi di crescita degli adolescenti.
È necessario precisare tre elementi: l’educazione non è un meccanismo. Io insegnante come posso nella mia lezione generare più vita, quella degli studenti ma anche la mia mettendo in gioco me stesso? Nell’incontro con l’altro io accolgo la sua domanda e sosto con la sua domanda. Difronte ai percorsi individuativi non ci sono norme ma io devo stare con l’altro. Se sono un buon educatore e un buon genitore avrò fatto mie delle strategie per gestire delle emozioni per gestire l’altro. È importante l’atteggiamento di curiosità. Noi dobbiamo essere interessati all’altro. Se l’altro è quello che vive il disagio non dovrò metterlo in una categoria ma accoglierlo.
Secondo: è importante l’atteggiamento di rispetto che non si limita al primo sguardo ma va in profondità. Terzo: la comprensione porta alla sintonizzazione. Questo fa l’adulto.
L’esperienza è un luogo di comprensione. Tutte le pratiche espressive e comprensive hanno un enorme valore. Dobbiamo ritornare su quello che accade, riflettere, questo chiedono le pratiche. È importante l’accoglimento dell’errore e non il suo rifiuto.
Nella nostra società del tutto e subito dobbiamo capire che, invece, l’educazione richiede tempo.
Il conflitto è un luogo educativo per eccellenza. I giovani oggi sono portati alla guerra e allo scontro non al conflitto. Il meccanismo riproduttivo dei modelli è molto forte e porta alla duplicazione violenta e ad atti brutali. Il caso di Giulia Cecchetin ha sconvolto anche i ragazzi
Ultima cosa: è importante offrire l’incontro con il sacro, degli orientamenti di senso che l’umano ha messo in campo nella sua storia.
Ecco alcuni passaggi del dibattito con i relatori.
La differenza sessuale rappresenta un valore oppure no? Va presa una posizione che non è ideologica ma rappresenta una esperienza ed un pensiero. Le coppie omogenitoriali possono dare cura e affetto ma non rappresentano la diversità e i rispecchiamenti sulla diversità perché testimoniano una non necessità della differenza.
C’è una mancata simbolizzazione di quella che è la aggressività, una grande fatica di esprimere in forma non violenta questa dimensione che appartiene all’umano.
Nella scuola primaria dovrebbe essere un obiettivo educativo aiutare ed educare bambini e bambine alla capacità di autocontrollo, a comprendere gli atti e le loro conseguenze; bisogna riflettere su cosa è la competenza all’autoregolazione; oggi ci sono bambini molto non autoregolati con un alto livello di capricciosità; l’adulto deve facilitare nel bambino la capacità di calmarsi; oggi questa competenza è molto in ribasso; la prima regolazione emozionale nasce dallo sguardo delle mamme mentre allattano e non devono guardare il cellulare; allatto, devo guardare mio figlio, devo parlargli, tenerlo in braccio. Se guardo il cellulare gli sto trasmettendo che sono lontana e non connessa con lui.
Clamorosa la incapacità di stare alla presenza dell’altro non solo in modo non violento ma anche in modo affettivo; questo porta ad un ritiro dei giovani da una riflessione che mi mette in contatto con il mio io, con la mia fragilità, con le mie attese.
Come far diventare la scuola un luogo dove ci si fida? La scuola così com’è dovrebbe essere chiusa? Noi siamo nel tempo in cui abbiamo un bisogno di scuola come mai forse in tempi recenti, quant’è vero che son diminuiti altri luoghi tradizionalmente deputati all’educazione e alla socializzazione, gli oratorii, lo sport. È uno dei pochi luoghi all’aperto dove possano fare esperienza.
È chiaro che ho bisogno di un ‘esperienza di feedback, devo dare allo studente un riscontro. È essenziale non semplificare queste realtà mentre spesso a livello di riforme istituzionali non è rara questa tendenza a semplificare. Bisogna ripensare la scuola come un luogo di esperienza, come una scuola di pensiero.
Se noi pensiamo che la scuola sia in competizione con le macchine, portiamo la scuola al fallimento! La macchina elabora, non pensa; se ripensiamo alla scuola come un luogo di pensiero, che è multiplo, è creativo, questo è vincente. Qui nasce il nuovo, l’umano che ancora non c’è.
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