Filosofia

I tanti sensi della maternità

22 Gennaio 2021

Caro Cigno Nero,

durante un colloquio di lavoro andato benissimo, mi hanno chiesto come ultima domanda se avevo figli: «No». Alla fine il posto è stato assegnato ad un mio conoscente (bravissimo ragazzo, ma obiettivamente con qualche “punto” in meno rispetto a me). Proprio parlandone poi con lui, espresse le mie stesse considerazioni: mi fece notare, con grande onestà, che in una situazione di pari merito, quasi tutte (proprio tutte?) le aziende prenderebbero un uomo, che di sicuro non darebbe “rogne” con la maternità.

Mi capitò quasi subito un altro colloquio, e questa volta si trattava di un’azienda di giochi, per cui il mio profilo sembrava perfetto. Sembrava ma non lo era, perché in quel caso preferivano una donna che avesse figli.

Certamente non escludo che i motivi delle mie “bocciature” possano essere stati altri, ma da allora ho riflettuto spesso sulla maternità.

In fondo anche nella vita di tutti i giorni c’è il panettiere che mi chiede: “Allora? Quando lo facciamo un figlio?”, o un’amica di amici appena conosciuta. Ma la lista degli “interessati” è davvero infinita. La cosa è molto fastidiosa, perché ho sempre pensato fossero “fatti miei”, o che almeno dovrebbero esserli.

Quindi volevo chiederti: cosa dice la filosofia su questo argomento? Si sbilancia su una posizione o sull’altra?

Federica

 

Cara Federica,

venendo subito alla tua domanda: vale in generale il discorso per cui non c’è una filosofia che “dice”, perché la sua storia è costellata di domande più che di risposte. E le domande, così come le risposte, sono state diverse, anche e soprattutto a seconda del tempo e dello spazio in cui si sono trovate ad essere poste. Ciò non vuol dire che un pensiero filosofico abbia una data di scadenza, che Platone o Sant’Agostino non abbiano più nulla dirci. Vuol dire semplicemente che “filosofia” non è riprodurre il già pensato, ma farci i conti rapportandolo alla propria vita per creare nuovi sensi; a volte significa anche fare i conti con ciò che non è stato ancora pensato ed è ancora da pensare.

Sull’argomento particolare che poni, infatti, la storia della filosofia non ci è di grande aiuto, nella misura in cui non lo ha problematizzato, né ha preso in considerazione le donne, se non per ribadirne, all’unisono col senso comune e il pensiero religioso, l’inferiorità o la funzione riproduttiva. È strano che neppure i filosofi, sinonimo di anticonformismo e larghe vedute, abbiano avuto il guizzo di guardare e immaginare le donne altrimenti. Ancor più strano se pensiamo all’intramontabile interrogativo sull’origine, su ciò che viene prima, su ciò che fonda ‒ qualsiasi cosa: il mondo reale o quello delle idee, la comunità o la politica ‒, accostato al totale disinteresse per la propria di origine, cioè per la natalità, relegandola a mero fatto biologico.

La morte, al contrario, seppur naturale, è stata sempre uno dei grandi temi filosofici da riempire di senso. Forse perché il morire, di cui si è coscienti e unici protagonisti, rispecchia meglio una cultura del soggetto-individuo e razionale, a differenza del nascere, che è sempre relazionale e inconsapevole.

È solo degli ultimi decenni l’interesse per questo aspetto, ed è così che, al pensiero necrofilo occidentale, si affianca oggi un’altra prospettiva, quella natale appunto. «Il miracolo che preserva il mondo (…) dalla sua naturale rovina, è il fatto della natalità», scriveva Arendt, per dire che essere davvero “umani” ‒ uomini o donne non importa ‒, significa essere “nuovi inizi”, che la nostra nascita originaria è da consolidare e riconfermare in ogni momento, attraverso azioni e discorsi che spezzino la replica dell’identico. Non siamo «mai nati del tutto», diceva Zambrano, per sottolineare che l’evento decisivo è ancora il nostro “essere venienti”, participio sempre presente che esprime bene l’idea di un processo mai definito una volta per tutte.

Venendo ai tuoi colloqui, che deduco relativi a un lavoro intellettuale, potremmo chiamare in causa Socrate, a cui Platone fa esporre il noto parallelismo: come le donne generano i figli e le figlie, allo stesso modo gli uomini concepiscono le idee e la verità. Tralasciando il fatto che nessuna idea potrebbe essere concepita da un uomo, se quest’ultimo non fosse nato, e quindi se non fosse stato generato da una madre, il parallelismo appartiene un po’ anche al nostro inconscio femminile. Pensiamo, ad esempio, a quando ci rubano un’idea o un progetto, e siamo abituate a rivendicarne la “paternità”.

Forse è un po’ questo il retaggio da cui viene il nostro disagio di fronte a chi ci chiede: “Hai figli?”, di fronte al centesimo paio di occhi che ci rimandano disappunto, se non compassione. Ecco, questa situazione-tipo, ci dice che la cultura ha un ruolo importante. Se una childfree vive la domanda del panettiere con la massima serenità, esiste un enorme ventaglio di possibilità altre, di vissuti altri, anche personali e dolorosi, di cui l’indelicatezza da caterpillar dell’intervistatore di turno non tiene conto. Accade, allora, che il peso di un giudizio gratuito e mai costruttivo si aggiunge ai conti che ogni donna fa già da sola con sé stessa, con la sua identità personale, prima ancora che sociale. Ed è così che ci si porta a casa quel senso di inadeguatezza per non aver generato, o per non averlo fatto come ci si aspetterebbe ‒ perché se si è madri di un figlio unico o di una figlia unica, la critica, l’amarezza e il fastidio, sono i medesimi ‒ . L’impressione è che, comunque la guardiamo, qualsiasi situazione viviamo, ci troviamo a pagare uno scotto: quando si è madri è difficile trovare un impiego perché i bimbi si ammalano; se non lo si è ci chiedono flessibilità straordinarie e prestazioni disumane.

Pare, allora, che alla base permanga questa tendenza all’identificazione della donna con il suo corpo, mentre l’uomo  è la mente, il creativo, il razionale, il politico. E nella storia il corpo della donna è stato sempre un campo di battaglia: tra arcaica sacralità e dannazione eterna, tra oggetto desiderato – che in quanto “oggetto” può essere mutilato nella cartellonistica, e in quanto “desiderato” può essere preteso – e mero contenitore fetale.

Allora forse è proprio da qui, dal corpo, che si può ripartire a pensare. Cosa vuol dire che una donna può generare? Partendo dal corpo proprio, vuol dire trasformarsi e trasformarlo, saper “tollerare la differenza”, per dirla con Irigaray, che è intrapersonale prima (perché all’inizio non si è due), e interpersonale poi (perché la nascita è relazionale: parafrasando Zambrano, si nasce sempre “con”, con qualcuno, da qualcuno, per qualcuno). Generare comporta poi tutta una serie di prassi: pannolini, pappe, bagnetti, notti insonni, primi passi, cadute, giochi, linguaggi nuovi e cerotti; il tutto mentre si sta sempre pronte a proteggere e soccorrere con la reattività di un ninja..

Seguendo Rigotti, però, potremmo scoprire che questi piccoli gesti quotidiani, oltre ad avere un potente significato concreto, possono essere traslati su altri piani.

Se così è, dovremmo forse ampliare l’orizzonte: potremmo scoprire che la maternità non si conchiude in un evento naturale, ma ha a che fare con tutto ciò che viene alla luce e verso cui abbiamo “cura”, in una asimmetria che – come scrive Irigaray – permette di sperimentare il potere “a favore di” qualcuno, piuttosto che il potere “su” qualcuno.  Essere materne vuol dire essere “inclinate” e non “verticali”, dice Cavarero in una intervista. E allora diventa questione di disposizione, di postura; diventa un modo d’essere, di pensare e di sentire. Ce lo hanno insegnato le nostre madri, proprio come Fenarete lo ha insegnato a Socrate.

Se così è, si può essere madri in molti sensi: con i figli propri o di altri, con i pensieri, le parole o i progetti. Si può essere madri ad ogni nascita, di un’amicizia o di un lavoro, di una relazione o di una pianta. E questo accade ogni volta che instauriamo una relazione non strumentale, ma di cura; ogni volta che non ci assettiamo nella rigida verticalità dell’in-dividuo assoluto, autonomo e non divisibile, ma ci disponiamo inclinati con l’ascolto, l’amore e l’interdipendenza che c’è con l’altro da me.

Si dice spesso che solo una madre è una “donna completa”. Zambrano, però, ci invita a considerare che tutti, uomini o donne, completi non lo saremo mai, indipendentemente dal nostro essere genitori. Non sarebbe forse meglio abbandonare questo ideale di verticalità e seguire la nostra “inclinazione”?

Irene Merlini

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Ph. by Nico Di Cesare
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