Questioni di genere
Huyskes spiega perchè senza il corpo delle donne non esiste nessuna forza lavoro
Sara è una donna, una madre. È disoccupata, single e migrante. La sua è un’identità stratificata, unica e irripetibile. Queste caratteristiche sociali la renderanno sospetta per tutta la vita. Perché per un modello matematico – e per il governo del suo paese – Sara è solo un insieme di indicatori che, sommati tra loro, generano un alto punteggio di rischio, una previsione statistica che la trasforma in una potenziale criminale. Ma la sua unica colpa è quella di essere se stessa, e di condividere un profilo simile ad altre persone esistite e accusate prima di lei. Grazie alla riscoperta di molti contributi femministi proposti tra gli anni settanta e duemila, Tecnologia della rivoluzione (Il Saggiatore) di Diletta Huyskes di cui pubblichiamo un estratto, ci spinge a riflettere su come intervenire per fare in modo che le rivoluzioni tecnologiche non portino a involuzioni sociali.
«Un uomo può lavorare “da un sole all’altro”, ma il lavoro di una donna non si conclude mai.» Questo detto inglese ottocentesco scolpiva in maniera lucida e chiara la realtà della condizione femminile che trascendeva le generazioni da secoli. Gli uomini lavoravano dall’alba al tramonto, e quando staccavano potevano trascorrere il loro tempo liberamente.
Le donne, invece, iniziavano prima dell’alba a lavorare per preparare la colazione, passavano la giornata a sbrigare le faccende domestiche come il bucato, la cura dei figli, la pulizia della casa, la spesa, la preparazione del pranzo e della cena e ogni altro lavoro necessario per mantenere la casa, crescere i figli e sfamare la famiglia.
Oppure, andavano in fabbrica, a svolgere il loro lavoro da operaie, per poi tornare a casa e continuare a lavorare fino a tarda notte, preparando la cena, sistemando, occupandosi dei figli. Un lavoro continuo, che costantemente oscilla tra il grembiule da cucina e la divisa da lavoro.
Nella prima metà degli anni settanta, donne di diversa provenienza geografica e sociale si incontravano per confrontarsi sulle loro esperienze quotidiane, intime. I non detti, le frustrazioni, le sensazioni quasi indicibili: siamo donne, ci interessa la politica, il nostro ruolo nella società, ma cosa stiamo facendo a casa? Non troppo lentamente, è emersa una coscienza diffusa, di classe ma femminista, intorno al lavoro domestico e di cura.
Quelle donne si incontravano per chiedere un salario per il lavoro «invisibile», la condizione necessaria per qualsiasi società. Lo spiega da sempre perfettamente Silvia Federici, che faceva parte di quel gruppo di donne e che scrive di lavoro riproduttivo e di accumulazione originaria: senza la riproduzione femminile, senza il lavoro di cura, la crescita dei figli, l’educazione che storicamente sono affidate alle donne, non esiste nessuna forza lavoro o capitale. Senza il corpo delle donne nella storia non ci sarebbero state le condizioni per accumulare capitale e, possiamo aggiungere a quanto scrive Federici, per sviluppare tecnologia e innovazione.
Nonostante la spinta della seconda ondata femminista, la riflessione sul potere all’interno delle battaglie politiche e delle rivendicazioni civili rimaneva tendenzialmente ancorata alla classe, faticando a trovare nel patriarcato, nelle disuguaglianze di genere e nell’intersezionalità un’urgenza politica. Heidi Hartmann l’ha definito «il matrimonio infelice tra marxismo e femminismo».
Dalla fabbrica alla casa, le femministe della seconda ondata incarnavano la lotta per i servizi sociali e delineavano un metodo, una prassi teorico‐politica per criticare l’analisi marxiana del lavoro, a cui mancava totalmente una riflessione su ciò che lo rendeva possibile: la riproduzione femminile. Il femminismo degli anni ottanta stava mettendo in discussione l’idea che il controllo sul processo lavorativo, a opera dei capitalisti, si compisse indipendentemente dal genere dei lavoratori che venivano controllati. Faceva luce, in altre parole, sul fatto che il rapporto strutturale tra capitale e lavoratori uomini non fosse paragonabile a quello tra capitale e lavoratrici donne. Perché le lotte di classe non si occupavano delle condizioni materiali ed economiche delle donne lavoratrici, divise tra lavoro operaio salariato e lavoro di cura non pagato?
Provando ad alleare la teoria marxista del capitalismo con la teoria femminista del patriarcato, le teoriche femministe ammettevano una costante difficoltà e insoddisfazione. Come scrive Cynthia Cockburn, si cercava di combinare due sistemi gerarchici e statici, piuttosto che i processi che li alimentavano e li rendevano possibili, e che permettevano di svelare quale dimensione del potere stesse subordinando contemporaneamente la classe e il genere, specialmente quando le due si sovrapponevano.
Allo stesso modo, un genere non può esistere senza l’altro. La classe non è di certo l’unico asse individuale e strutturale costruito con e nella società e verso il quale possono essere esercitate ingiustizie e oppressioni.
Lo sfruttamento di classe e dei lavoratori e la prevaricazione maschile sulle donne erano una faccia della stessa medaglia. Proprio come si riteneva che ai capitalisti interessasse la massimizzazione dei profitti, così si poteva parlare di istituzionalizzazione degli interessi del genere maschile: anche gli interessi femminili erano in realtà identificati e stabiliti dagli uomini, così come tutto ciò che veniva costruito per le donne era costruito dagli uomini.
La cecità di genere di sociologici e filosofi che si occupavano di tecnologia, tipica di quel momento storico, ha contribuito a plasmare la tecnologia come culturalmente maschile. Pur mettendo in discussione il determinismo tecnologico introdotto dal materialismo marxista, autori come Bijker e Pinch nel loro studio empirico su come la società costruisce la tecnologia non hanno esteso la riflessione oltre i contenitori vuoti delle categorie escluse. E invece le donne erano proprio escluse nella tecnologia, perché la divisione sessuale del lavoro le relegava alla vita domestica, o al massimo le spingeva per mezza giornata in fabbrica, ma di certo non consentiva loro di entrare nel mondo dell’ingegneria, della scienza e della tecnologia.
Come poteva non essere rilevante, per la rivoluzione sociale che il progresso tecnologico prometteva, il fatto che in quella costruzione fossero presenti esclusivamente uomini? Questo ha – inevitabilmente – contribuito a dare forma, significato e senso a molte delle tecnologie che conosciamo e che usiamo.
I primi studi femministi sulla tecnologia sono nati per indagare l’esclusione delle donne dalla scienza e dalla tecnologia. Molto presto, al centro fu messo il lavoro, chiedendosi il perché di così poche donne nell’ingegneria, nella matematica, nella progettazione.
I lavori di Anne Sayre negli anni sessanta e Evelyn Fox Keller negli anni ottanta, impegnate nella pubblicazione delle biografie rispettivamente delle scienziate Rosalind Franklin e Barbara McClintock, avevano lo scopo di ricostruire alcuni dei successi scientifici attribuibili alle donne che altrimenti sarebbero stati dimenticati. Man mano che la drammatica esclusione delle donne dalla scienza si faceva più evidente, però, molte studiose hanno spostato l’analisi alla resistente e sistematica barriera all’accesso per le donne in quei contesti di potere, piuttosto che concentrarsi sul racconto del lavoro di alcune donne considerate «eccezionali», oltre la norma.
Judy Wajcman sembrava stesse parlando a noi oggi quando quasi trent’anni fa ricostruiva le modalità attraverso cui il tema ha attratto interessi e contributi in quegli anni. Un forte accento era posto sulle pratiche di socializzazione dei generi: la cultura all’interno della quale le ragazze (e i ragazzi) crescevano e in cui venivano educati spingeva sin dai primi anni di vita a pensare che la scienza fosse una cosa «da maschi», allontanandole dalla matematica e dai laboratori della scienza. Il ruolo della rappresentazione del genere, del suo simbolismo, e dei posizionamenti materiali che ne conseguono meriterebbe un intero capitolo, ma mi limiterò a ricordare quanto il sentir ripetere che l’ingegneria è una cosa da uomini influenzi la percentuale di uomini che lavorano nell’ingegneria.
Con The Science Question in Feminism Sandra Harding ha rivoluzionato il modo in cui si stava pensando al rapporto tra scienza, tecnologia e genere.
Fino a quel momento, infatti, si pensava alla «questione femminile nella scienza», focalizzando l’attenzione sulla norma prestabilita. Harding faceva notare come questo approccio collocasse la responsabilità nelle donne, nel genere in cui si identificavano, e nei valori che questo rappresentava, invece che nella scienza e nelle sue istituzioni, chiedendosi piuttosto come queste avrebbero potuto essere ripensate per includere anche le donne e le categorie escluse.
Le politiche sulle pari opportunità che incoraggiavano l’accesso all’educazione scientifica, scrive sempre Wajcman, richiedevano alle donne di «adattarsi» alla scienza, mentre agli uomini non era mai richiesto lo stesso sforzo: «il successo di queste strategie è stato limitato proprio perché ha fallito nel contrastare la divisione del lavoro in base al genere» in tutta la società, comprese le altre professioni. Spostando l’analisi dal soggetto all’oggetto, si discuteva della scienza in sé, sempre considerata come neutrale e oggettiva se basata sul metodo. Al femminismo costruttivista veniva facile riconoscere dei bias all’interno della scienza e della costruzione epistemologica, di cosa conta e cosa no, e quindi di ciò che guida la ricerca e la sua interpretazione. Il contributo fondamentale di Harding è da ricercare, in questo senso, nella sua teoria del punto di vista. Questa epistemologia, o teoria sociale, sosteneva con fermezza ciò che potrebbe apparirci come un principio del tutto scontato, eppure continuamente scartato, e cioè che le prospettive (o punti di vista) individuali, modellate dalle esperienze sociali e politiche di ognuno, influenzano profondamente la loro comprensione del mondo. Harding per prima proponeva di radicare l’autorità della conoscenza in questo semplice presupposto.
Rivolta alle donne e a tutti i gruppi emarginati, la teoria dei punti di vista puntava a sottolineare l’importanza della comprensione, del linguaggio, della percezione, e di ciò che ognuno di noi ritiene importante per capire quali istanze o esperienze sono considerate rilevanti e quali conclusioni credibili. Harding definiva questa come l’unica, possibile, oggettività «forte»: solo una conoscenza arricchita da più punti di vista possibili, compresi quelli di individui emarginati e oppressi, può essere considerata come una conoscenza oggettiva del mondo, che offre una visione per esempio di tutti gli ostacoli incontrati nella società o nella scienza più in particolare, e non solo dei suoi successi.
Questa insistenza sulle prospettive, sui punti di vista, sulle diverse rappresentazioni, appartiene indubbiamente alla stessa radice della flessibilità interpretativa. Il marxismo, che a sua volta si ispirava in questo alla teoria hegeliana e alla dialettica tra schiavi e padroni, indagava già come i ruoli di potere influenzano i mezzi della conoscenza. Ma la dialettica di classe non può e non deve rimanere l’unica prospettiva da cui indagare il privilegio.
Oggi diversi studi si concentrano su questo presupposto e sulla critica del «punto di vista» privilegiato, come gli studi critici sui dati che approfondiremo. Come può una società che per decenni si è basata esclusivamente sul corpo maschile come metro di misura garantire un trattamento equo in base al genere? Nemmeno la scienza, allo stesso modo della tecnologia, può essere separata dalle interazioni sociali, così come ogni epistemologia non può essere data e univoca. Questo è stato particolarmente vero per una generazione di sociologi e filosofi della scienza che insisteva su quanto «la conoscenza scientifica, così come ogni altra forma di conoscenza, è condizionata al livello più profondo dalla società in cui è condotta».
Anche in questo caso, tuttavia, la riflessione sociologica e culturale si era concentrata sulla costruzione capitalista della tecnologia, tralasciando la sua componente patriarcale. Diversamente, i movimenti femministi attorno alla scienza hanno messo in discussione il modello scientifico basato sul dualismo cartesiano, poi ampliato, e che perpetrava dicotomie come cultura vs natura, ragione vs emozioni, mente vs corpo, pubblico vs privato, oggettività vs soggettività.
Il superamento del dualismo è stato uno degli obiettivi teorici fondamentali del femminismo della seconda ondata, centrale come vedremo nell’opera di Donna Haraway e del cyberfemminismo. Le riflessioni intorno al metodo si allargavano alla pratica scientifica. […] L’esclusione delle donne dalla tecnologia non significa, o significava, un allontanamento solamente dai luoghi di costruzione, potere e istruzione, ma anche dall’utilizzo e godimento della stessa. Questo approccio, quello dell’esclusione, continua a essere a distanza di decenni il modo più diffuso che abbiamo per occuparci del rapporto tra genere e tecnologia. Oltre ad analizzare il ruolo delle strutture istituzionali e organizzative, di un mondo costruito da uomini per gli uomini, e dei pregiudizi biologici essenzialisti, alcune femministe si sono chieste se non ci fosse qualcosa di intrinsecamente maschile nella tecnologia. Se l’esclusione, in altre parole, non fosse dovuta all’artefatto in sé.
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