Lavoro

Giovani donne diventano “primario”: all’estero, naturalmente

24 Febbraio 2015

Prima è stato il turno di Simone Speggiorin, il più giovane consultat (potremmo tradurre il termine impropriamente come “primario”, figura apicale di un “reparto” ospedaliero nell’immaginario collettivo italiano) in cardiochirurgia del Servizio Sanitario di Sua Maestà. Segni particolari: Italiano, 37 anni.

Ora è il turno di Valentina Lafemine, laureatasi in medicina e chirurgia all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma nel 2002 ed oggi, a 35 anni, “primario” dell’unità di senologia al Cardiff and Vale Breast Centre dell’Università Hospital of Llandough. Segni particolari: Italiana, 35 anni, donna.

Nel suo caso, oltre all’età, bene registrare anche questo particolare poiché in Italia non mi risulta esistano “primari” donne responsabili di una Unità Operativa Complessa di senologia nemmeno a 60 anni. Spero in una smentita.

Giovani, bravi e lavoratori. (All’estero). Proviamo a vederla in positivo, con una prospettiva europea. Il rapporto She-Figures 2013, documento prodotto dalla Commissione Europea per analizzare la differenza di genere in ricerca ed innovazione, utilizza tra gli altri indicatori anche quello di mobilità professionale. La mobilità è qui intesa come essersi recati all’estero per un periodo di almeno tre mesi negli ultimi tre anni; essa è probabilmente un sintomo di mancanza di opportunità lavorative nel proprio Paese di origine ma nella prospettiva del rapporto è altresì intesa come un importante parametro di professionalità e acquisizione di competenze associato agli impieghi di tipo scientifico. Se pur la mobilità maschile è maggiore di quella femminile il rapporto tra mobilità femminile e maschile (2/3) in Italia è superiore alla media europea, e tra i primi 5 posti, davanti a Svezia, Gran Bretagna e Germania. In questo caso, un’elevata mobilità indica un elevato tasso di esperienze professionalizzanti tra i lavoratori italiani.

Il problema è l’assoluta unidirezionali di questo “eco-sistema professionale”: biglietto di sola andata, lasciate ogni speranza di tornare! Lo raccontano le voci dei colleghi italiani raccontati dal servizio di 2 Next Economia e Futuro girato in Germania, a Monaco, quelli come Salvatore Cassese che ti dicono “quello che riesco a fare qui, a 34 anni come responsabile di un servizio di Cardiologia, in Italia non sarebbe possibile. Dal punto di vista lavorativo non c’è paragone. Che cosa ha da offrire l’Italia a un medico di 32, 34 o anche 40 anni? Nulla.”

Continuano a fare tanto scalpore le storie di giovani medici italiani affermatisi all’estero tanto quanto è assordante il silenzio attorno alla necessaria presa in carico di un sistema formativo professionalizzante, quello in medicina, che in Italia fa ormai acqua da tutte le parti. Basta analizzare i dati per rendersi conto di quanto ormai sia fuori controllo un sistema che non ha il coraggio politico di pesare ed equilibrare il diritto all’istruzione con il diritto alla tutela della salute (e a un’assistenza sanitaria di qualità).

Pianificazione e programmazione, queste sconosciute.  Verrebbe da dire questo guardando il grafico elaborato dall’Associazione Italiana Giovani Medici (SIGM) che ci da il quadro decennale della (non) programmazione del sistema formativo professionalizzante dei medici: una forbice ormai ampiamente divaricata segna circa 17.000 matricole iscritte al primo anno di corso di laurea in medicina nel corrente anno accademico a fronte di circa 6.000 posti finanziati per la formazione post-lauream (scuole di specializzazione e corso di formazione in medicina generale).

Sono i risultati di decenni di lotta intestina tra Università e Servizio Sanitario Nazionale sulle prerogative formative sommati al cieco decisionismo “giustizialista” dei tribunali amministrativi che, solo negli ultimi due anni, sono riusciti a riammettere circa 10.000 studenti in sovrannumero ai corsi di laurea a seguito di ricorsi che hanno messo in ginocchio una capacità formativa già sovraccarica di problemi socio-politico-organizzativi che, per l’appunto, arrivano da lontano. La politica? Assente.

Rubinetto aperto = allagamento sicuro. Le soluzioni che la politica riesce a proporre in questo scenario sembrano tanto delle toppe apposte alle tubature per evitare che l’acqua che goccia dal soffitto riempia i secchi sparsi sul pavimento senza preoccuparsi di ciò che si sta lasciando in eredità a chi riaprirà la casa dopo le vacanze.

Lo scenario più prossimo è quanto di più lontano dallo scenario inglese o tedesco, dove i giovani colleghi si sono affermati per bravura, coraggio, perseveranza e fortuna. In Italia il piano, nemmeno tanto nascosto, è quello di arrivare a una voluta dequalificazione professionale per utilizzare risorse professionali a basso costo in un Servizio Sanitario Nazionale sempre più povero. Per i poveri.

31 miliardi di euro di tagli in 4 anni spiegano un servizio pubblico sempre più povero (accennavo qualcosa in un recente post su gliStatiGenerali), quanto scrivevo in un recente articolo sul Sole24Ore in merito alle soluzioni proposte dalle Regioni racconta il resto.

La soluzione. Ovviamente questo discorso non va letto soltanto nella prospettiva della categoria medica. Non è un problema “di parte” o di casta. È un problema collettivo che deve essere affrontato, innanzi tutto, nella prospettiva del cittadino; spiegando che in Italia esiste (ancora) una sanità pubblica e, pertanto, un ragionamento di libero mercato non è applicabile e una pianificazione di quanti e quali Medici (con la M maiuscola) devo avere è necessaria. Altra scelta è quella di ridurre il peso del nostro Servizio Sanitario Nazionale (che attualmente copre il 77% della spesa sanitaria complessiva secondo i recenti dati OECD, superiore alla media dei Paesi osservati), relegarlo ad un determinato compito (minore) ed aprire il mercato. A quel punto non mi interesserà sapere quanti e quali medici, ovvero con quali specializzazioni (step post lauream di formazione-lavoro finanziato dallo Stato e necessario per lavorare nel Servizio Sanitario Nazionale) devo avere; tutto sarà regolamentato dalla domanda e dall’offerta, come negli USA (che hanno il triste primato di avere la maggior spesa sanitaria a livello mondiale, proprio perché lasciata al “controllo” del libero mercato).

Finché crediamo che la salute sia un valore da difendere e il diritto alla tutela della salute resterà un mandato costituzionale a difesa del singolo individuo, dovere della collettività, allora è bene che iniziamo ad affrontare seriamente il problema della pianificazione delle risorse umane in sanità by-passando le lotte intestine di categoria (ancora mi domando come si possa continuare una lotta al ribasso tra medici e infermieri in questo Paese quando è palese che la sanità stia passando di mano a professionalità che con il binomio salute/malattia non c’entrano nulla e si stia marginalizzando entrambi a ruoli meramente tecnici) e trovando soluzioni credibili che agiscano a breve, medio e lungo termine.

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