Partiti e politici

Femminismo, un’idea che tenta i progressisti (ma non in Italia)

31 Agosto 2018

Nelle Americhe come in Europa il fenomeno MeToo è sempre più sotto attacco: se negli USA di Donald Trump stanno acquisendo crescente visibilità formazioni maschilistiche ostili alle politiche di eguaglianza di genere, e in Argentina si conferma il no all’aborto, emblematica, in Italia, la vicenda Asia Argento, dove i presunti abusi compiuti dall’attrice ai danni del giovanissimo Jimmy Bennett si sono tradotti, in molti ambienti, in una dura critica al MeToo stesso.

Questo spiega perché sempre più femministe, specie nel mondo anglofono, vedono nell’impegno politico l’unica strada per trasformare le rivendicazioni del MeToo in conquiste durature. Il caso più evidente è quello degli Stati Uniti, dove il partito democratico è in pieno rinnovamento grazie all’entrata in gioco di molte donne, spesso giovani e appartenenti a minoranze razziali o linguistiche. Come la “latina” Alexandria Ocasio-Cortez o l’italoamericana Alessandra Biaggi. O ancora, come la somala Ilhan Omar – immigrata negli Stati Uniti nel ‘95 – o Deb Haaland, che potrebbe diventare la prima nativa americana a essere eletta per il Congresso.

Del resto negli Stati Uniti il femminismo è ormai una delle cifre del Partito Democratico, come raccontava già l’anno scorso Peter Beinart su The Atlantic. La Nuova Zelanda è un altro caso interessante, con la premier Jacinda Ardern rientrata da poco al lavoro dopo aver avuto una figlia durante il mandato. O si pensi alle politiche estere femministe di Canada e Svezia.

Femministe di tutto il mondo unitevi, dunque, e ponetevi alla testa dei partiti progressisti? In effetti potrebbe essere una buona idea. L’Islanda, ad esempio, detiene il primo posto nel Global Gender Gap Report del World Economic Forum dal 2009. Un risultato che viene da lontano: se l’Islanda fu tra i primissimi paesi al mondo a riconoscere il diritto di voto – e di candidatura – alle donne, nel 1915, lo si deve al suo movimento per i diritti delle donne, che sull’isola ha una storia antica, e una grande capacità di mobilitazione.

Basti pensare all’ottobre del 1975, quando  il 90% delle islandesi incrociò le braccia per lo Sciopero delle donne, rifiutandosi di svolgere qualunque attività lavorativa, fuori e dentro casa (cura dei figli compresa). Una giornata storica che paralizzò buona parte del paese. Cinque anni dopo fu eletta Vigdís Finnbogadóttir, la prima presidente della repubblica donna del mondo. E dato che, nonostante tutto, la parità restava ancora lontana, nel 1981 fu fondato il partito Kvennalistinn (letteralmente, “la lista delle donne”).

Sigríður Dúna Kristmundsdóttir, docente di antropologia presso la University of Iceland, è una delle tre donne giunte in parlamento nel 1983 proprio con Kvennalistinn, che a soli due anni dalla fondazione conquistò il 5,5% dei voti alle elezioni nazionali. A Gli Stati Generali confessa: «certo, fu un grande sforzo. Del resto, questo genere di cose non è mai facile. Ma i risultati furono davvero importanti». Gli altri partiti politici reagirono al successo della Lista delle donne accogliendo molte delle sue idee, e aprendosi a una maggiore presenza femminile tra le loro file. Ed essendo presente in parlamento, la Kvennalistinn garantì un importante “feminist check” all’operato del governo.

Non solo. Il successo della Lista delle donne portò alla nascita di altri gruppi e associazioni femminili, focalizzati sui problemi delle donne nel mercato del lavoro, sulla violenza di genere e molto altro. Per Kristmundsdóttir non ci sono dubbi. «Indipendentemente dal loro successo alle urne, i partiti femministi attirano l’attenzione su idee, obiettivi e punti di vista nuovi, che troppo spesso sono totalmente assenti dal dibattito pubblico».

Dalla Svezia concorda anche Mia Liinason, docente di studi di genere all’Università di Göteborg, specializzata nell’analisi delle iniziative femministe collettive. «Credo che il femminismo possa dare un contributo importante all’arena politica di un paese, e aiutare a costruire una società più equa» dice. In Svezia è attivo il partito Feministiskt initiativ (FI), ossia Iniziativa Femminista. Nato nel 2005, è arrivato al Parlamento europeo con le elezioni del 2014, e nello stesso anno è entrato in tredici consigli comunali, inclusi quelli di grandi città come Göteborg e Stoccolma.

«Mi pare che l’FI stia operando bene – nota Liinason –. Qui a Göteborg rimangono ferme sulle loro posizioni quando si tratta di negoziare e dibattere nuove leggi. In questo modo fanno pressione sugli altri». Ma i partiti femministi non sono un fenomeno esclusivo dei paesi scandinavi. Nel Regno Unito, ad esempio, è attivo il Women’s Equality Party (WEP), fondato nel 2015 dalla scrittrice e giornalista Catherine Mayer e dalla produttrice e attivista politica anglo-danese Sandi Toksvig.

Creato con obiettivi come promuovere l’eguaglianza delle donne nella società, conquistare la parità salariale, nonché porre fine alla violenza di genere, il WEP non è ancora riuscito a entrare nel parlamento nazionale, «ma alle elezioni locali, in cui il sistema è proporzionale, le sue candidate hanno ottenuto fino al 26% dei voti – spiega Elizabeth Evans, docente di scienze politiche al Goldsmiths College della University of London, specializzata in attivismo femminista e politiche femminili –. D’altra parte il sistema elettorale britannico rende quasi impossibile sfondare per i partiti più piccoli».

Sia Islanda che Svezia hanno movimenti femministi importanti, attivi e di lunga data. Lo stesso dicasi per il Regno Unito, patria di femministe del calibro di Emmeline Pankhurst, la celebre leader delle suffragette britanniche.

Ma, secondo le esperte sentite da Gli Stati Generali, l’esistenza di un forte movimento per i diritti delle donne non è una condizione indispensabile per fondare un partito femminista. «Nel Regno Unito, ad esempio, è stato un processo top-down – sottolinea Evans –. La condizione più importante perché nasca un partito femminista, o comunque focalizzato sui diritti delle donne, è la diseguaglianza di genere a sfavore di queste. Una condizione presente praticamente ovunque».

Concorda anche Kristmundsdóttir. «Un movimento femminista forte è un bene, ma non un requisito. Entrando in politica, il femminismo può educare e risvegliare la consapevolezza delle persone. È soprattutto un mezzo per essere ascoltate».

In primis dagli altri partiti. «Lo scopo di queste forze politiche è scardinare la politica dominata dagli uomini – sottolinea Evans. – Dato che in genere hanno vita breve e pochi successi elettorali, il loro obiettivo è far sì che gli altri partiti includano le questioni legate all’eguaglianza di genere nei loro programmi e nella loro azione politica. E i dati sembrano suggerire che in effetti sia ciò accade».

E in Italia? Pur cavandosela molto peggio di Islanda, Svezia e Regno Unito nel Global Gender Gap Report – dove l’anno scorso occupava l’82esima posizione su 144 – il Belpaese non ha mai visto la nascita di un partito femminista. E, secondo la sociologa Chiara Saraceno, è difficile che accada. «Anche quando è stato tanto forte da influenzare l’agenda politica, come per la legge sull’interruzione volontaria della gravidanza, il movimento italiano delle donne si è sempre diviso al momento di individuare la precisa legge o azione politica da proporre».

A parte l’iniziativa Towanda, lanciata dalle donne del Partito Democratico l’aprile scorso, tutto tace nella sinistra italiana. Per Saraceno ci sarebbe bisogno, in primis, di una maggior condivisione di obiettivi. «Nei paesi in cui esistono, o sono esistiti, dei partiti femministi, l’accordo è stato trovato su agende che molte femministe italiane liquiderebbero come “emancipazioniste”. In realtà quelle agende, in quei paesi, hanno permesso di cambiare anche la cultura di genere maschile, almeno in parte».

Che l’Italia abbia ancora molto lavoro da fare in materia di parità di genere, a tutti i livelli, è indubbio. Non sono solo i dati delle organizzazioni internazionali a dirlo, ma anche fenomeni strutturali come l’alta disoccupazione femminile, la diseguaglianza salariale, la mancanza di un’equa divisione delle faccende domestiche o della cura dei figli, per non parlare dell’altissimo numero di femminicidi, e della violenza contro le donne in generale.

Ancora, se il governo Renzi ha smantellato il Ministero per le pari opportunità, in quello attuale solo 5 dei 18 ministri sono donne – perlopiù senza portafoglio. Eppure, in Italia si mettono ancora in discussione delle misure messe in campo (anni fa) proprio per promuovere la partecipazione politica delle donne. È il caso del sistema delle quote, spesso visto come una sorta di favoritismo, di corsia preferenziale. Una percezione che porta a dubitare a priori delle competenze delle donne elette – o assunte in determinati posti di lavoro – tramite le quote.

Una percezione che è anche sbagliata, dicono i dati. «Ho svolto una ricerca per verificare se il sistema delle quote conduca a candidate meno qualificate analizzando le elezioni italiane del 1994 – dice Ana Catalano Weeks, assistant professor di politiche comparate alla University of Bath –. Ne è risultato che le donne elette attraverso le quote erano qualificate esattamente quanto gli uomini. La ricerca è stata replicata anche in altri paesi, ad esempio in Francia, e il risultato è stato il medesimo».

Per Catalano Weeks, il problema è culturale. «Non si discute mai sulle migliori o peggiori capacità di chi si candida, tranne quando ci sono di mezzo le quote. Eppure, persino degli esponenti dell’estrema destra belga mi hanno confessato che, anche se inizialmente non avrebbero mai incluso così tante donne se non fosse stato per le quote, grazie a loro il partito è migliorato. Il punto è anche che in Belgio la legge ha meccanismi di applicazione piuttosto severi, mentre in Italia ci sono varie scappatoie che permettono ai partiti di aggirare il problema, come hanno dimostrato le elezioni del 4 marzo».

 

Immagine in copertina: Pixabay

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