Questioni di genere
Femminicidi, quanta violenza abbiamo ignorato e dimenticato
La lunga eco dell’uccisione di Giulia Cecchettin ha fatto sì che di violenza contro le donne si parlasse di più e in modo diverso dal passato. Ma l’informazione ha continuato a ignorare le vite e le storie della stragrande maggioranza delle vittime di femminicidi
Il 2025 è appena cominciato e già registriamo la prima vittima di femminicidio dell’anno: Eliza Stefania Feru, uccisa dal marito, la guardia giurata Daniele Bordicchia, sposato da appena qualche mese. Un solo colpo sparato dalla pistola d’ordinanza, prima di suicidarsi. La violenza contro le donne continua a scandire i giorni e le settimane, da qualche anno è argomento di discussione e dibattito pubblico: fa sempre più notizia, e se fa notizia è perché, come da efficace luogo comune, somiglia sempre di più non al cane che morde l’uomo, ma all’uomo che morde il cane. Appare, cioè, sempre meno “normale”. E tuttavia: come fa notizia?
In Italia, durante il 2024, la maggioranza degli articoli che hanno parlato di casi di femminicidio si sono soffermati su un’unica vicenda: quella di Giulia Cecchettin, uccisa dall’ex fidanzato Filippo Turetta nel novembre 2023. Degli oltre 110 casi di donne uccise dai loro partner all’8 dicembre 2024, nessuno è assurto agli onori della cronaca a un livello paragonabile a questo caso o, in seconda battuta, a quello di Giulia Tramontano, uccisa al settimo mese di gravidanza dal partner Alessandro Impagnatiello, a maggio 2023. L’effige di Giulia Cecchettin sorridente è diventata presto un logo, e come tale è stata utilizzata sia a livello popolare, sia dalle istituzioni. La direttrice della Fiera della Piccola e media editoria “Più libri più liberi”, la scrittrice Chiara Valerio, ha deciso nel 2023 che a Giulia, vittima di violenza maschile, sarebbero state dedicate ben tre edizioni della kermesse. Perché ben tre, e perché soltanto a lei? In un arco di tempo così lungo, a fronte di oltre trecento vittime plausibili (una media di circa 100 l’anno) di femminicidio, la scelta di continuare a concentrarsi solo su una di queste lascia perplessi. E non può non indurre a sospettare che si sia trattato proprio di un tentativo di utilizzare in qualche modo la sua immagine, di splendere della luce emanata dal simbolo che ormai Giulia Cecchettin è divenuta; dubbio tanto più lecito se una simile scelta non si accompagna a pratiche coerenti nella conduzione della kermesse, come nel caso dell’invito inoltrato da Valerio stessa – poi revocato, a seguito di pesanti polemiche – allo scrittore Leonardo Caffo, imputato in quel momento e successivamente condannato per lesioni e maltrattamenti nei confronti della ex compagna.
Vicende che fanno o non fanno notizia
Per una sola vittima la cui vicenda diventa illustre, tante altre rimangono pressoché ignote, o destinate a essere ricordate soltanto in lunghi elenchi di rito il 25 novembre, durante la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. Nel corso del 2024, l’unica vicenda che per qualche giorno ha avuto risonanza è stata l’uccisione di Maria Campai, sul finire di settembre, per mano di un killer a malapena 17enne che ha confessato di aver voluto “scoprire cosa si prova”. Altre vicende hanno avuto maggiore risalto, per breve tempo, a livello locale, per esempio l’assassinio della fisioterapista Manuela Tetrangeli a Roma, o della giovanissima Sara Centelleghe in Lombardia. In entrambi i casi, a fare notizia è stata, più che la morte di una donna per femminicidio, la crudeltà efferata o spettacolare con cui il delitto è avvenuto: oltre 30 coltellate per ammazzare Sara Centelleghe, un fucile a canne mozze fatto sparare in pieno giorno, fra la gente, per punire definitivamente Manuela Tetrangeli. La stragrande maggioranza delle vittime di femminicidio del 2024 hanno nomi e cognomi che non risuonano nella nostra memoria, e storie di vita che non conosciamo, di cui forse non abbiamo letto una riga. Storie come quelle di Ester Palmieri, di Annalisa Rizzo, di Maria Batista Ferreira, Aneta Danelczyk, Li Xuemei, Joy Omoragbon, tutte uccise a coltellate da mariti gelosi o che non accettavano la separazione. Donne di tante provenienze diverse, italiana, cinese, brasiliana, polacca, nigeriana, storie incredibilmente simili fra loro da un lato all’altro della penisola; tutte provenienti da quartieri popolari o frazioni di provincia, lavori umili, vite “normali”, in cui normalmente si consuma la violenza. Storie di donne molto anziane, come Luisa Trombetta soffocata a 83 anni a Terracina, nel sud del Lazio, da un marito 93enne, al culmine di un litigio. O di donne giovanissime, come Aurora Tila, morta appena 13enne dopo una caduta dal balcone mentre si trovava con il giovane fidanzato 15enne, attualmente indagato, non già condannato per l’omicidio. Ma era già impressionante, per vite così giovani, l’elenco delle violenze che Aurora aveva subito dal ragazzo. Il profilo del femminicida non ha un’età specifica né una classe sociale di provenienza, tanto meno un’origine geografica precisa. Si manifesta fra i netturbini, fra gli impiegati di banca, fra i poliziotti in pensione.
Le storie di ogni singola vittima di femminicidio sono da anni raccolte da volontarie e attiviste, che documentano attentamente tutte le loro vicende. Lo fanno per esempio Femminicidio Italia e l’Osservatorio di Non Una di Meno, per mettere queste storie e i dati da esse estrapolati a disposizione di chi voglia comprendere, studiare e dire. Ma la cronaca, specialmente quella nazionale, continua a ignorarle. Perché?
Notiziabilità
Uno studio sulla notiziabilità dei femminicidi avviato nel 2015 presso l’Osservatorio di ricerca sul Femminicidio diretto dalla sociologa Pina Lalli, titolare della cattedra di Sociologia dei processi culturali e comunicativi presso l’Università di Bologna, mostra come a fare notizia nei femminicidi, rendendone alcuni “ad alto profilo” e facendoli uscire dalla mera cronaca locale, siano innanzitutto alcune caratteristiche da “racconto giallo” della vicenda: se per esempio i protagonisti sono molto giovani, se l’uccisione è preceduta da una scomparsa e dunque si è creato un mistero attorno alla vicenda stessa, con un possibile finale aperto. Se, insomma, la cornice narrativa è quella del pathos, della tragedia, e non dell’ordinaria violenza.
La vicenda di Giulia Cecchettin presentava tutte queste caratteristiche: per alcuni giorni, tutta Italia ha seguito con apprensione la cronaca di una scomparsa, pregando e/o sperando ché i due giovani tornassero, e che tornassero entrambi vivi. Man mano che passava il tempo ed emergevano alcuni aspetti del loro rapporto e delle circostanze della scomparsa, il racconto, esattamente come un mistero giallo, si risolveva in un delitto, fino al tragico finale.
Un femminicidio da manuale, insomma, con tutti gli elementi narrativi necessari a farne una notizia da prima pagina per alcuni giorni. E tuttavia, in questa storia interviene anche un altro fattore.
Cosa fa la differenza
Interviene un fattore imprevisto, ed è che, come spiega la stessa Pina Lalli a Gli Stati Generali, “in questa vicenda la vittima non ha perso la sua voce: attraverso la figura di Elena Cecchettin, così simile alla sorella per caratteristiche fisiche ed età, per la vicinanza e l’affetto che le univa, Giulia ha continuato a parlare”.
Attraverso sua sorella, spiega Lalli, Giulia Cecchettin ha mantenuto un corpo. E ha continuato, perciò, ad avere voce; una voce che ha saputo risuonare. Ciò che Elena ha detto riguardo al femminicidio – condannandolo come “omicidio di Stato” e chiamando subito in causa la responsabilità collettiva, facendo fuoriuscire la vicenda da una dimensione strettamente privatistica – ha fatto la differenza. Ha cambiato, spiega di nuovo Lalli, “la cornice del racconto: non più il frame passionale della cronaca, bensì quello della denuncia sociale e politica. Non più la possessività come espressione dei sentimenti, bensì come espressione dei rapporti sociali”. E ha fatto sì che tante altre donne trovassero la spinta per chiedere aiuto per la violenza a propria volta subita, chiamando in causa la responsabilità collettiva. Francesca Malfatti, responsabile del centro antiviolenza Martina Scialdone di Roma, racconta a Gli Stati Generali: “La vicenda di Giulia Cecchettin, raccontata attraverso le parole di Elena e attraverso quelle del padre Gino, ha sdoganato finalmente, a livello popolare, ciò che il movimento femminista cerca di rendere senso comune da decenni: che la ragione della violenza contro le donne non ha a che fare con i rapporti sentimentali privati, ma con i rapporti di potere e con una dimensione culturale e sociale. Questo scarto di consapevolezza, nelle vittime, fa tutta la differenza: se chiamano il 1522 – le chiamate al numero antiviolenza sono aumentate di circa il 60% nel corso del 2024, ndr – o se varcano la soglia di un Centro per chiedere aiuto, è perché hanno già cominciato a smettere di colpevolizzarsi per le angherie subite”.
I geronto-femminicidi e “il dramma della solitudine”
“Il classico raptus, o “il dramma della gelosia”, o il “non ce la faceva più”, che consentono di giustificare la violenza maschile con l’esasperazione degli uomini nei confronti delle donne, non sono letture dei fatti derivanti dai fatti stessi; esprimono invece l’interpretazione faziosa che i giornalisti stessi, immersi nella cultura predominante come chiunque altro, danno dei fenomeni”, puntualizza di nuovo Lalli. “Nel caso dei femminicidi di donne anziane, che costituiscono ogni anno circa un quarto del totale, il cosiddetto “dramma della solitudine” con cui li si racconta guarda caso colpisce quasi solo uomini con mogli malate. Chiediamoci perché, nel caso contrario, quando è lui malato ed è lei a doversene prendere cura, questo “dramma della solitudine” non si risolve in un assassinio. Senza voler sminuire le reali sofferenze di queste coppie, così spesso private del welfare, evidentemente non è lì il movente dell’assassinio”.
Legittimazione della violenza
L’assassinio, come tanti altri reati violenti, è figlio del senso di legittimazione. “Se pensiamo che lo ius corrigendi del marito, ovvero la violenza come diritto del pater familias, era legge fino a pochissimi decenni fa, che il delitto d’onore era legge fino ad ancora meno decenni fa, che lo stupro è diventato un reato contro la persona neanche 30 anni fa”, osserva Malfatti, “non è difficile capire che lo Stato stesso, a lungo, ha rappresentato la cornice di legittimazione della violenza”. Oggi che questa giustificazione non si trova più nelle leggi, dov’è che gli uomini violenti traggono il senso di legittimità? Spesso è nelle reti che costituiscono con altri uomini; in quella galassia del maschilismo organizzato quasi mai chiamata in causa quando si fa la cronaca delle violenze maschili, e che invece andrebbe indagata e raccontata. Ambienti che promuovono percorsi di vera e propria radicalizzazione misogina sulla base del vittimismo. Associazioni di padri separati, di Incel o altre realtà che recriminano alle donne i diritti conquistati; gruppi e chat che praticano il revenge porn di massa, con decine di migliaia di iscritti. La loro funzione è produrre discorsi d’odio e di deumanizzazione nei confronti delle donne, che legittimino ogni sorta di violenza, compreso estrema. Il pregiudizio ancora radicato nella cultura patriarcale è che la violenza maschile contro le donne sia provocata dalle vittime. Molto meno, invece, si tende a riconoscere che spesso essa è istigata e legittimata da altri uomini violenti, radicalizzati a propria volta. Nelle future cronache delle donne uccise che verranno – e purtroppo già sappiamo che verranno – sarebbe una buona pratica provare a illuminare anche queste zone d’ombra.
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