Questioni di genere
Donne di laboratorio: scienziate italiane tra sacrifici e successi
«L’Italia è l’unico paese al mondo dove la ricerca scientifica viene totalmente trascurata, come se non servisse a nulla – dice a Gli Stati Generali Daria Maria Monti, docente di biochimica applicata all’Università Federico II di Napoli –. Eppure ogni anno formiamo meravigliosi ricercatori che ci vengono “rubati” dal resto del mondo». Difficile dare torto alla scienziata.
Dal 2008 i fondi pubblici destinati alla ricerca sono diminuiti del 20% (1,2 miliardi di euro), e nel 2015 gli investimenti statali in ricerca e sviluppo hanno rappresentato solo lo 0,51% del Pil: una cifra oggettivamente troppo bassa. E se l’occupazione femminile nel complesso è sempre inferiore a quella maschile, la situazione non migliora se guardiamo alla ricerca. Settore dove il precariato è soprattutto femminile. Secondo una ricercatrice di fisica che preferisce rimanere anonima, «in Italia, a nord come a sud, le scienziate sono bestie da soma che tirano la carretta a basso costo».
Parole dure, ma purtroppo reali. Eppure il ruolo delle scienziate è spesso insostituibile. «Se domani venisse nel laboratorio che dirigo, vedrebbe che l’80% degli studenti di dottorato, e di post-dottorato, è donna. Il problema – nota Valeria Poli professoressa di biologia molecolare presso l’Università di Torino, – è che poi la proporzione si inverte, e sono soprattutto gli uomini a proseguire nella carriera e a raggiungere posizioni apicali».
Qualche giorno fa il rettore della Normale di Pisa denunciava l’impossibilità di promuovere donne in ateneo senza scatenare polemiche, proteste e persino fiumi di lettere infamanti. Secondo i dati del Miur, le donne rappresentano oltre il 45% dei ricercatori italiani, ma solo il 21% dei docenti ordinari. Un dato che conferma la presenza del famoso “soffitto di cristallo” anche nell’accademia.
«L’80% degli studenti di dottorato, e di post-dottorato, è donna. Il problema è che sono soprattutto gli uomini a fare carriera». Ma nonostante i pregiudizi, la scarsità di fondi, le gravi difficoltà per conciliare il lavoro con la vita personale, quando la passione per la scienza chiama non c’è statistica che tenga. E pur essendo ancora meno numerose degli uomini nelle cosiddette discipline STEM (dall’acronimo inglese che sta per Scienza, Tecnologia, Ingegneria e Matematica), le “donne di laboratorio” in Italia non mancano, e anzi sono sempre di più.
Donne indubbiamente coraggiose, che intraprendono una carriera scientifica e passano giornate intere (a volte anche le nottate) sul bancone, in camice bianco: tra sequenziatori automatici di DNA e microscopi confocali; cilindri e cappe a flusso laminare; lettori di piastre e apparecchi per analizzare le proteine. Che rubano tempo al sonno, alla vita “fuori”, spesso anche al tempo libero e alla famiglia. Ma che nel laboratorio trovano un luogo speciale dove essere creative, mettere a frutto il loro talento, confrontarsi con sfide nuove ogni giorno.
«Cominciare il lavoro in laboratorio è stato entusiasmante – racconta sorridendo Olga De Castro, ricercatrice di botanica sistematica al Dipartimento di Biologia dell’Università Federico II di Napoli –. Io ho sempre pensato al cervello come a una sorta di terreno fertile, e qui ho trovato l’ambiente migliore per far germinare tutto il potenziale del mio sistema nervoso! Certo, all’inizio è stata dura perché ovviamente combinavo guai, sbagliavo le reazioni, non mi riuscivano gli esperimenti. Ero sempre messa alla prova, ma in maniera positiva. Del resto quando si lavora in laboratorio si attacca alle 08:30 e si stacca alle 20».
Il laboratorio dei suoi primi errori, presso l’Orto Botanico di Napoli, oggi De Castro lo dirige. La ricercatrice napoletana snocciola sorridendo la sua routine quotidiana. «Ormai ho una famiglia, quindi alle 17:30 devo staccare (altrimenti incorro nell’ira di mia figlia). Ma comincio alle 08:30 tutti i giorni e non faccio pausa pranzo. Il lavoro mi assorbe moltissimo, c’è sempre un esperimento da terminare o una relazione da scrivere, e spesso sono così presa che dover mangiare è una scocciatura. Però mi costringo lo stesso a concedermi uno snack veloce».
«Io ho sempre pensato al cervello come a una sorta di terreno fertile, e qui ho trovato l’ambiente migliore per farlo germinare». In effetti una delle caratteristiche di ogni laboratorio che si rispetti è che non si ferma mai. «Io faccio ricerca sui meccanismi che stanno alla base della trascrizione e dell’espressione genica, e su come le alterazioni di questi meccanismi possono essere implicate in diverse patologie – spiega Poli –. Essendo un settore competitivo bisogna arrivare per primi. Fare una cosa oggi o lasciarla a domani può fare la differenza, e gli esperimenti non distinguono fra orari notturni e diurni, né sanno nulla dei fine settimana».
Ma parte della bellezza del lavoro in laboratorio consiste proprio nella trepidazione e nell’eccitazione che l’attività di ricerca riesce a generare. «Ciò che mi piaceva di più era svegliarmi la mattina con il pensiero di correre a vedere com’erano andati gli esperimenti del giorno prima» ricorda Poli. Molto spesso, infatti, gli esperimenti richiedono ore di sviluppo. «Per impressionare la lastra fotografica con gli esperimenti radioattivi, ad esempio – continua la ricercatrice – ci voleva un certo tempo. E così avevo l’impressione che ogni giorno fosse una nuova sfida, con nuove cose da capire e da fare».
Affascinata dalle proteine e dalla loro versatilità, dopo la laurea in biologia nel 1999 Daria Maria Monti ha scelto di dedicarsi alla biochimica. «Di recente però mi sto interessando sempre più agli antiossidanti, essenziali per combattere l’invecchiamento e numerose patologie dovute allo stress ossidativo». Anche per lei il laboratorio è un’esperienza indimenticabile. «È una sensazione unica, dalla prima volta in cui riesci a fare un esperimento tutto da sola a quando guardi le cellule al microscopio. Il “lab” è una scuola di vita, un mondo a sé stante. Dove ti senti al sicuro, ma dal quale talvolta vorresti solo scappare».
E inevitabilmente, quello che agli “esterni” può sembrare uno spazio inospitale, freddo, colmo di apparecchiature e marchingegni complicati, con persone in camice bianco che maneggiano strumenti strani, diventa per gli addetti ai lavori una seconda casa. «Io lo dico sempre ai ragazzi che lavorano con me – dice Sabrina Sabatini –, in fondo sono come la mia famiglia. Passo più tempo con loro che con mia figlia!» Sabatini è professore associato presso il Dipartimento di biologia e biotecnologie dell’Università La Sapienza di Roma. Dove, grazie al finanziamento della Fondazione Giovanni Armenise-Harvard, nel 2003 ha potuto allestire un laboratorio indipendente.
«Studio le cellule staminali delle piante, che hanno caratteristiche piuttosto simili a quelle degli animali – spiega –, perché sono in grado di dare origine a dei tessuti specializzati e di rigenerare se stesse». Il laboratorio, per lei, è sinonimo di squadra e passione. «La soddisfazione più grande che mi ha regalato questo lavoro è l’essere sempre circondata da persone veramente dedite al proprio lavoro, animate da un’immensa passione. Insomma, posso chiamare il lab a qualsiasi ora del giorno o della notte e ci trovo sempre qualcuno: è incredibile», dice ridendo.
«La soddisfazione più grande è l’essere sempre circondata da persone animate da un’immensa passione». Di certo non è facile dividersi tra il laboratorio e la famiglia. La ricerca richiede abnegazione, molto tempo e tante energie. E assorbe a tal punto che anche quando si appende il camice per tornare a casa, è difficile staccare davvero. «Il mio cervello funziona un po’ come quello dei delfini, che dormono con un emisfero alla volta – confessa De Castro –. Anche quando arrivo a casa, metà della mia mente rimane lì, in laboratorio. Ovviamente ci sono, sono presente per mia figlia e mio marito. Però ecco, se leggo qualcosa probabilmente non sarà un settimanale ma un paper scientifico».
Nata in una famiglia di accademici – i suoi genitori sono paleontologi – e De Castro ricorda con affetto le conversazioni su sezioni sottili e fossili di mamma e papà. «Per me era normale ascoltare discorsi scientifici, e vedevo entrambi così felici – continua –. Io, come i miei genitori e come altri colleghi, ho l’immensa fortuna di essere pagata per fare una cosa che mi piace. Per me non è un lavoro, è proprio il mio mondo».
«Conosco persone che lavorano nel cinema – dice Sabatini –, e in laboratorio vedo lo stesso tipo di entusiasmo, la voglia di collaborare per produrre qualcosa di buono basato sulla propria creatività. E credo che questa sia la cosa migliore per una persona: ogni lavoro dovrebbe richiedere almeno un minimo di creatività, perché noi esseri umani ne abbiamo bisogno».
Peraltro, solo con una grande passione si possono superare gli ostacoli, gli insuccessi e le difficoltà, e ad affrontare i sacrifici che richiede la vita da ricercatrice. «Quello che mi piace di meno è il tempo che si sottrae alla propria famiglia» nota Monti. «Molti uomini che ho conosciuto e che hanno fatto carriera in questo settore avevano una famiglia – racconta Poli –, però avevano una moglie che stava a casa, badava ai figli, si occupava di tutto il lavoro domestico. Magari loro vedevano i figli mezz’ora al giorno. Ovviamente così è facile conciliare famiglia e lavoro. Ma pure trovando un compagno disposto a occuparsi di casa e figli (ci sono uomini così), credo che raramente una donna accetti di essere così poco presente nella vita dei figli. Anche perché penso che difficilmente una donna sia felice se si occupa di una cosa sola. O almeno questa è la mia esperienza».
Sabatini ha una figlia di dodici anni. «In Italia è molto difficile coniugare carriera e famiglia. E poi tendenzialmente il distacco dai figli, quando sono piccoli, è molto più difficile per le donne. Quando mia figlia aveva nove mesi, ad esempio, il mio compagno e io facevamo lo stesso mestiere, e io rinunciai a un congresso perché l’idea di stare due settimane senza vederla mi distruggeva. Lui invece è partito tranquillamente» nota sorridendo. «Avrei potuto benissimo andare, c’era mia madre per occuparsi della bambina, ma non ce l’ho fatta. E queste cose ti condizionano, perché nel nostro campo la visibilità e le pubbliche relazioni sono fondamentali».
Alle giovani che vogliono fare ricerca in laboratorio, Monti consiglia di studiare molto, e bene, «per affrontare la giungla del mondo scientifico con solide basi. Consiglio di andare per un po’ di tempo all’estero, per affinare le competenze e confrontarsi col resto del mondo. Consiglio poi di avere il coraggio di tornare in Italia, nonostante tutto. E di studiare l’inglese e di avere fama di conoscenza: non bisogna mai gettare la spugna». Neanche quando i fondi scarseggiano o non arrivano. Neanche quando prevale lo scoramento, o magari ti si rompe uno strumento e non ci sono i soldi per farlo riparare.
«Io devo ringraziare il professor Salvatore Cozzolino, che mi seguiva quando sono arrivata in questo laboratorio per la mia tesi di laurea – racconta De Castro –, e mi ha insegnato a capire anche gli strumenti. Mi diceva: tu con questo strumento ci lavori, perciò inizia a capire com’è fatto. Perché così un giorno, quando non avrai fondi e si romperà, sarai in grado di ripararlo tu, o comunque di valutare i danni. Per fortuna me lo insegnò. In una situazione difficile come quella dei fondi per la ricerca in Italia, il ricercatore fa tutto. Gestire un laboratorio è molto bello però richiede tanto lavoro e tanta fatica. Proprio come una famiglia».
Il laboratorio guidato da Poli, presso l’Università di Torino, riceve finanziamenti dalla fondazione dell’Associazione italiana per la ricerca sul cancro. «È una grande fortuna – nota la docente – perché il suo modo di distribuire i fondi è assolutamente comparabile a come avviene all’estero. Si presenta un progetto, viene valutato, viene valutata la validità di chi lo presenta, e in base a ciò i finanziamenti vengono assegnati o negati. I finanziamenti ministeriali, al contrario, sono totalmente erratici».
I PRIN (Progetti di rilevante interesse nazionale) del Miur, che dovrebbero costituire la maggior parte dei finanziamenti alla cosiddetta ricerca di base, dovrebbero essere annuali. «Invece ce n’è stato uno nel 2012, un altro nel 2015 e l’ultimo l’anno scorso – continua Poli –. E questo crea grossi problemi. È difficile mandare avanti un laboratorio in queste condizioni e mantenere l’entusiasmo nelle persone che ci lavorano senza la stabilità di un professore ordinario, per esempio. Se non trovo finanziamenti, i miei ragazzi vanno a casa. Credo che la ricerca italiana stia rimanendo sempre più indietro. E temo arriverà un momento in cui il divario sarà incolmabile».
Insomma, con i suoi banconi e le sue attrezzature complesse, costose e delicate, il “lab” è una serie inesauribile di sfide. «Ci vuole molto sangue freddo – conferma Monti – per non lasciarsi abbattere dalle mille sconfitte, e continuare a cercare una grande vittoria. Gli esperimenti in laboratorio sono una grande fonte di frustrazione. Per dimostrare una teoria devi passare per mille risultati negativi, e solo alla fine riesci a fare chiarezza, a guardare le cose nel loro insieme. Talvolta ci si perde nei meandri di un singolo esperimento per capire cos’è andato storto, ma spesso quello che sembra un risultato negativo è un’indicazione di come aggiustare il tiro per proseguire».
«Sono convinta che per riuscire in questo lavoro si debba avere l’ossessione della ricerca – dice Sabatini –. Io non ho mai pensato di arrendermi, neanche quando mi sono ritrovata a crescere una figlia da sola guadagnando 1.200 euro e pagandone 900 di affitto. Bisogna superare innumerevoli ostacoli. Spesso le ricerche vanno male, gli esperimenti non riescono o si viene rifiutati. E allora bisogna anche avere molta fiducia in se stessi, essere sicuri di dove si vuole arrivare e credere fermamente che prima o poi le cose andranno bene. Intendiamoci, non è che questi siano i segreti per semplificarsi la vita: la strada è comunque in salita. Però così non te ne accorgi».
Immagine in copertina: Pixabay
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