Questioni di genere
Donne che hanno fatto grande l’America: Shelly Lowe
Io Navajo per la valorizzazione e il recupero delle culture native, la pace e la riconciliazione
Kamala Harris non ce l’ha fatta a divenire il primo presidente donna degli Stati Uniti. Ha vinto il maschio Donald Trump con un successo schiacciante ottenuto con evidenti profili di irrazionalità del voto: islamofobo, ma sostenuto pubblicamente da imam musulmani; xenofobo ma votato da latinos e immigrati.
Quel che è peggio hanno votato per lui schiere di donne. Come ha ben titolato e argomentato Jennifer Guerra su Fan Page: la vittoria di Trump è la vittoria dell’America che odia le donne (qui)
Da un paio di mesi ho pubblicato diversi racconti su GLI STATI GENERALI: donne che hanno fatto grande l’America, lottando per i diritti civili e sociali, per la parità di genere, per lo sviluppo della sanità, della scienza, della cultura.
A queste vorrei aggiungere oggi la storia di Shelly Lowe, del tutto sconosciuta in Italia. Nata nel 1974, membro del popolo Navajo, cresciuta nella riserva di Ganado in Arizona.
Ha raccontato di essere maturata in un’originale dislocazione: del tutto immersa nella cultura del suo popolo, ma senza averne appreso la lingua per via dell’enfasi messa dai suoi genitori sull’istruzione e quindi sentendo parlare in casa e a scuola solo inglese. Sarà una grande avventura da grande apprendere la sua lingua: «ho scoperto un tesoro di idee che non avrei mai compreso parlando solo inglese».
Schierata con grande responsabilità per l’impegno a preservare e valorizzare le sue origini di nativa, nel 2022 è stata nominata presidente del National endworment for the umanities, l’agenzia federale Usa che sostiene la ricerca e la conservazione del patrimonio culturale americano.
Ha sviluppato programmi e azioni soprattutto di recupero del patrimonio linguistico indigeno. Ha spiegato: «quando perdiamo una lingua, perdiamo la conoscenza, la storia e i valori che vi sono radicati oltre la nostra identità come comunità. E dimenticare queste lingue significa rinunciare a una cultura di pace che affida alle donne il ruolo di pacificatrici…Stiamo anche lanciando un progetto per il recupero delle canzoni tradizionali indigene. Dobbiamo ricordare che i mondi in cui si muovevano i nostri antenati erano fatti di canzoni e di preghiere, che ci hanno avvolti in coperte di amore e saggezza. Riportarle in vita ci permette di proseguire il cammino rafforzati dall’amore e dalla saggezza di tutti».
Si è anche dedicata con passione a incrementare cammini di riconciliazione e perdono tra i colonizzatori e le tribù estromesse dai loro territori, vittime di leggi che hanno vietato l’uso di lingue native e destinato all’assimilazione generazioni di bambini nei collegi per nativi americani.
Qui le sue considerazioni incrociano quanto accaduto con l’elezione di Trump e la mancata elezione delle prima donna presidente degli Stati Uniti.
«Le ferite della colonizzazione sono profonde e rendono difficili le scelte per guarire. E’ qui che il recupero della figura femminile tradizionale può aiutarci. Nella nostra società sono le donne a fare le leggi e a scegliere i leader. Li incoronano conferendo loro l’emblema dell’autorità, le corna di cervo. Quindi un capo non può avere voce a meno che una donna gliela dia. Le donne della tribù partecipano attivamente alle discussioni sulla ricerca e il mantenimento della pace e guidano la comunità nel cammino verso il perdono e la riconciliazione. C’è un detto Navajo che dice che la pace è una trama intricata tessuta dalle mani che la scelgono. Spesso sono mani femminili».
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