Questioni di genere

Donne che amano uomini che odiano le donne

1 Giugno 2016

Morire a 22 anni bruciata da un uomo assassino, nell’indifferenza o nella paura di chi avrebbe potuto salvarla, forse. Un cazzotto nello stomaco, ma è la cronaca che, una volta ogni tre giorni, ci consegna l’enormità del fenomeno.

In questi anni la consapevolezza che esiste un enorme, gigantesco problema sociale che riguarda la violenza sulle donne è aumentata.

Fino a pochi anni fa gli episodi di femminicidio venivano confinati alla Cronaca Nera. Delitti per cui si scomodava un aggettivo che sembrava giustificare o attenuare l’assassinio: delitto passionale. Subdolamente questa definizione lascia intendere che, prima, c’era un grande amore. E di fronte al grande amore scatta la tentazione di ridurre la storia a melodramma. Unico e irripetibile. Eppure la passione è poesia, amore, sentimento forte e contraddittorio. Scrivi canzoni o piangi sulle spalle di un amico. Ti ubriachi e piagnucoli, se non sai scrivere poesie immortali.

Qui stiamo parlando di potere, non di passione. Del potere che non sopporta la libertà. Che non rispetta la scelta.

Stiamo parlando dell’esercizio disumano del potere che si alimenta con la paura. Che prima agisce con le parole, il disprezzo, l’annientamento psicologico. Poi cresce, deforma i pensieri, si trasforma in ossessione, botte, aggressione, omicidio. Distruzione assoluta: se non puoi essere mia non potrai essere di nessuno. Io sono il tuo carnefice: puoi amare solo me. Non c’è vita fuori da me.

Morta, sarai Santa. Viva senza di me, sarai puttana. Ammazzandoti, ti salvo dalla tua depravazione.

Dietro una storia violenta, non c’è quasi mai un grande amore romantico. C’è umiliazione, paura, potere, sopraffazione.

Le statistiche restituiscono l’enormità del fenomeno fino ad un certo punto. Alzi la mano chi non sa di cosa sto parlando. Alzi la mano quella donna che non ha vissuto il potere delle parole, la distruzione dell’identità, la violenza lieve o bestiale sul suo corpo da parte di chi ama o ha amato.

Saranno 6 su 10, quelle che alzeranno la mano. Le altre 4 abbasseranno gli occhi e non lo racconteranno. Saranno, statisticamente, professioniste, studentesse, operaie, impiegate, disoccupate, casalinghe. Donne normali che si sono innamorate di uomini normali. Molte avranno studiato, alcune verranno da ovattati ambienti borghesi e socialmente ineccepibili. Siamo noi, sono le nostre figlie.

Le sopravvissute all’amore cieco non raccontano. Perché si vergognano. Provano vergogna a raccontare che ad un certo punto della loro vita è successo che si sono trasformate in bestioline impaurite, inermi stracci nelle mani di qualcuno che, per eccesso di amore, le ha calpestate fino a ridurle in pezzi. Donne che hanno amato uomini che odiano le donne.

Quando ce la fanno, quando sopravvivono le donne vittime di violenza cercano di dimenticare. Chiudono le ferite nel cassetto, non lo mettono a disposizione di altre donne. Perché continuano a pensare, in fondo, di essere colpevoli. Non riescono a liberarsi dall’idea che è dipeso da loro se l’altro si è trasformato in carnefice. Dalla loro debolezza, dalla loro incapacità o inadeguatezza.

Il senso di colpa, verso se stesse prima di tutto, ammutolisce e costringe alla rimozione, all’occultamento.

Così si perpetua quel meccanismo insano per cui soltanto i corpi ammazzati raccontano della violenza. Quei corpi che non possono più raccontare cosa è successo prima di morire: la paura, la vergogna, il guardarsi alle spalle, la disperazione della solitudine, la persecuzione da parte di chi non vuole, non ammette, non sopporta che l’amore possa finire. Perché è possesso. E quando una cosa che si possiede sfugge, la tentazione di trattenerla a forza arriva ad accecare la ragione. L’amore non ha nulla a che fare con il possesso. Si possiede una cosa, un oggetto, una casa. L’amore non si possiede, si conquista o si lascia andare.

Quattro donne italiane su dieci hanno subito, almeno una volta nella vita, violenza dentro le mura domestiche.

Fino a pochi anni fa lo stupro era un reato contro la morale. Se consumato dentro le mura domestiche ancora oggi è reato controverso e da dimostrare.  In questi anni, per fortuna, è cambiato il quadro giuridico ed è cambiata la risposta istituzionale alla violenza (anche se molto resta da fare)  ma rimane l’archetipo, la paura, il silenzio sociale.

Una donna che subisce violenza deve attraversare un deserto di sofferenza prima di rivolgersi alle istituzioni, prima di denunciare. Se denuncia.  Perché molto più spesso prova in solitudine a sfuggire al proprio carnefice o a subire in silenzio. Vergognandosi e nascondendo con il correttore le occhiaie delle notti insonni e dei lividi lasciati dal troppo amore.

Analizzando i casi più violenti – quelli che finiscono con corpi straziati – si osserva che l’esito più orribile dei rapporti malati avviene nel centro-nord Italia, nelle città di provincia, nell’assoluta trasversalità delle classi sociali e delle condizioni culturali e delle generazioni. Muoiono studentesse universitarie, casalinghe, operaie, professioniste. Giovani o meno giovani. All’inizio di un rapporto o dopo tanti anni di sopportazione. I carnefici sono tendenzialmente ex: è quando una donna sceglie di troncare un rapporto malato che è più in pericolo. E’ in quel momento che rischia di più.

Le vittime scelgono la libertà e per questo pagano il prezzo.

Ci si è interrogati a lungo sul profilo delle vittime: deboli, succubi, fragili.

Io ribalto lo stereotipo: le donne che rischiano la vita sono quelle forti. Sono le ribelli. Quelle che non ci stanno, che rifiutano la violenza ed ad un certo punto decidono di uscire dalla prigione malata dell’amore cieco. Sfidano il loro persecutore e  rivendicano libertà di scelta. Sono le prede eccitanti del gioco perverso di chi si sente padrone. Solleticano l’istinto frustrato del possesso, della frustrazione che si fa rabbia e acceca.

In questo paese c’è una gigantesca questione maschile. Facciamo tutti fatica ad ammetterlo, tolto pochi casi illuminati. C’è un problema che riguarda gli stereotipi, l’incapacità di elaborare emozioni, la difficoltà di avere relazioni affettive mature ed equilibrate. Alle ragazze abbiamo più o meno insegnato che potranno, se vogliono,  diventare astronaute. Ai ragazzi continuiamo a raccontare che negli spogliatoi delle palestre ci si prende a spintoni e piangere è roba da femmine.

In questo paese, in una parte rilevante di questo paese, manca del tutto un programma di ri-educazione sentimentale: la capacità di elaborare il proprio ruolo e il proprio posto nel mondo, la faticosa ricerca del sistemare le emozioni e le passioni al posto giusto. Lo sforzo continuo di mediare tra pulsione, desiderio, passione, amore. Di fare i conti con il rifiuto, con la frustrazione, con la rabbia.

Continuiamo a pensare che si tratti di percorsi individuali, privati, quando i numeri ci dicono che in realtà è l’intera società che deve rieducarsi sentimentalmente. Imparando a gestire le relazioni private in un mondo che ha sovvertito i ruoli consolidati. Ma, anche, imparando ad agire in quanto comunità, consorzio umano capace di non avere paura di una giovane donna che chiede aiuto.

Perché una società che vive con la paura non protegge nessuno, neppure se stessa, dai propri fantasmi.

Le Istituzioni fanno e devono fare la loro parte. Ma non bastano, quando ci sono, a sconfiggere i mostri anonimi e normali che dimorano dentro di noi.

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