Questioni di genere
Nulla di nuovo sul fronte della disinformazione di genere: il caso di Cecilia Sala
Mentre l’8 gennaio scorso il Paese ha finalmente tirato un sospiro di sollievo per la liberazione di Cecilia Sala, detenuta per 20 giorni senza un’accusa nel carcere iraniano di Evin, non sono però mancati gli attacchi nei suoi confronti, soprattutto sui social. In una società dove la violenza contro le donne e la progressiva erosione dei loro diritti – alla salute, al lavoro e persino all’esistenza – sono sempre più normalizzate, questa ondata di offese non desta purtroppo sorpresa. Infatti, per citare Filippo Maria Battaglia, l’insulto sessista ha un’ombra lunga nella nostra storia politica “da Togliatti a Grillo”.
L’affermazione del sociologo Manuel Castells secondo cui la tecnologia non determini la società, ma sia la società, va forse riconsiderata nell’era degli algoritmi. Oggi è evidente che l’online non si limita a riflettere il sessismo e la misoginia che esistono offline, ma li amplifica attraverso un sistema che privilegia i sentimenti negativi per generare maggiore engagement e quindi guadagni economici. Si tratta di un fenomeno sistematico che prende il nome di “disinformazione di genere” e riguarda la produzione e diffusione di contenuti falsi ed ingannevoli volti a danneggiare donne in posizioni di visibilità, come politiche, giornaliste e altre figure pubbliche. Gli attacchi consistono in storie inventate o fuorvianti e immagini manipolate che le denigrano, umiliano e spesso le sessualizzano (si pensi agli spesso citati deepfake).
L’obiettivo, spiegano le ricercatrici dell’ONG #ShePersisted Lucina di Meco e Kristina Wilfore, è di dipingere le vittime come “intrinsecamente inaffidabili, poco intelligenti, troppo emotive o libidinose per ricoprire una carica pubblica o partecipare alla politica democratica”. Sebbene non configuri di per sé un reato e si mantenga nei limiti della libertà di espressione, la disinformazione di genere crea un contesto che legittima e favorisce la violenza di genere e i crimini d’odio. Nina Jankowicz, ex direttrice del defunto “Disinformation Governance Board” sotto l’amministrazione Biden e vittima lei stessa di disinformazione di genere, ne parla come di un mix di falsità, intenti maligni e coordinazione. Un esempio concreto è la campagna russa contro l’attuale Ministra degli Esteri Annalena Baerbock durante le elezioni federali tedesche del 2021, che ha impattato negativamente sui suoi risultati.
Già durante la prigionia di Cecilia Sala, molti commentavano l’opportunità del suo viaggio in Iran, dimenticando che fosse una giornalista di esteri – e non “ragazza”– con regolare visto e vasta esperienza sul campo. Un episodio simile si era verificato poche settimane prima, quando la speleologa Ottavia Piana era rimasta bloccata in una grotta del bergamasco. Screditare le donne sul piano professionale è una strategia ricorrente, specialmente quando sfidano i ruoli tradizionalmente attribuiti al genere femminile e si affermano in ambiti prima di dominio maschile, dalla politica al giornalismo, dalle attività scientifiche a quelle dirigenziali.
Si punta allora a creare scandali, intrecciando episodi irrilevanti e decontestualizzati della vita privata per presentarli come presunte prove di inadeguatezza, come dimostrano i titoli clickbait di alcuni media tradizionali che rilanciavano un cameo di Cecilia Sala in un video del trapper Toni Effe, noto per i suoi testi misogini. La dinamica ricorda i video di balli e feste usati per minare la credibilità della deputata statunitense Alexandra Ocasio-Cortez e l’ex premier finlandese Sanna Marin, in un doppio standard evidente rispetto agli anni del “bunga bunga” di berlusconiana memoria. Un altro classico sono le correlazioni spurie e le false equivalenze. Un esempio da manuale di whataboutism, riassunto dallo slogan “e i marò?”, viene dalla Lega, che ha riesumato un tweet di dodici anni fa di Cecilia Sala, paragonando impropriamente la detenzione senza accuse della giornalista con il fermo di due militari per omicidio.
Le polemiche su un possibile scambio di prigionieri o pagamento di un riscatto per liberare Sala ricordano quelle sulla cooperante Silvia Romano che, ostaggio per 18 mesi del gruppo terroristico al-Shabaab e rilasciata nel pieno della pandemia, fu al centro di false affermazioni secondo cui il riscatto avrebbe sottratto fondi alla cassa integrazione, nonostante si trattasse di voci di spesa completamente distinte. In un altro parallelismo, Romano era stata accusata di indossare un Rolex, mentre più recentemente non ci hanno risparmiato i commenti sul Barbour radical chic indossato da Sala. La disinformazione di genere sfrutta poi l’intersezionalità (elemento caratterizzante della quarta ondata di femminismo), amplificando gli attacchi contro chi appartiene a gruppi marginalizzati. L’odio scatenato anche da figure pubbliche contro Silvia Romano, convertitasi all’Islam durante la prigionia, non ha riguardato notizie analoghe sulla fine dei sequestri di Luca Tacchetto o Sergio Zanotti.
Il giorno del ritorno in Italia della giornalista, Striscia la notizia ha ironizzato sull’evento come opportunità per riempire talk show e salotti televisivi avvalendosi di un deepfake volto a ridicolizzare Lilli Gruber, il cui programma veniva ribattezzato “sbotto e mezzo” e paragonando Sala ad una omonima soubrette tra risate registrate di sottofondo. L’intento satirico mal cela un disprezzo verso le donne che trova spazio in entrambi i lati dello spettro politico. Nella polarizzazione tra fazioni, la cultura memetica ha criticato la destra al governo per aver celebrato la liberazione di Cecilia Sala come un successo al contrario di quella di Silvia Romano. Al contempo, ha attaccato la sinistra, richiamando il caso della scarcerazione da parte dell’Ungheria dell’ora eurodeputata Ilaria Salis, al centro di una bufera per l’occupazione abusiva di una casa.
Il cosiddetto “Madonna-whore complex” riduce le donne a figure bidimensionali: vittime angelicate perché impotenti e passive o figure demonizzate quando assumono posizioni progressiste e identità non conformi. Cecilia Sala ha già parlato dei 20 giorni di prigionia con umanità e coerenza, senza odio per un regime nemico o pentimento per il proprio lavoro – e continuerà a farlo, esponendosi ad attacchi che sarà compito di tutte e tutti noi contrastare. Perché qualsiasi sia il punto di partenza, il fine ultimo della disinformazione di genere è sempre quello di silenziare i propri bersagli.
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