Famiglia

Diritto di critica, ma solo se sei madre. Chiara Caucino e la politica personale

20 Febbraio 2020

Il disegno di legge della Regione Piemonte “Allontanamento zero” aveva già fatto discutere molto nelle scorse settimane. Una discussione che, fin da principio, si era polarizzata intorno a due visioni profondamente differenti del ruolo genitoriale e del rapporto genitori – figli. Da una parte chi sostiene il bene primo del minore, il cui interesse e tutela è, in ultima istanza, l’elemento dirimente rispetto a qualsiasi situazione di problematicità familiare, dall’altra chi sostiene il diritto alla genitorialità prima di tutto (già cavallo di battaglia del decreto Pillon, nel quale si rivendicava il diritto di entrambi i genitori ad avere titolarità del tempo del figlio). Ieri l’assessore regionale della Lega Nord Chiara Caucino ha rilasciato una dichiarazione che, per molti, ha chiarito in modo lapidario il tipo di rapporto che deve intercorrere, nella sua visione politico amministrativa, fra società e famiglia.

“Accetto qualunque critica, ma non da donne che non hanno figli. C’è chi parla e non è nemmeno madre, forse prima di parlare dovrebbe passare per quel sacro vincolo. Sono arrabbiata con chi non capisce che non strumentalizzo i bambini e che il mio interesse è tutelarli: lo faccio per mio figlio e per tutti i bambini. Perché i figli sono dei genitori e non dello Stato, al contrario di quanto credono alcune parti politiche. Con il disegno di legge ‘Allontanamenti zero’ stiamo toccando interessi per quasi 60 milioni – è questo il valore annuale del sistema infanzia in Piemonte – capisco che ci sia chi si preoccupa. Spostiamo i fondi per darli alle famiglie, è questo che preoccupa”

La gravità delle affermazioni dell’assessore interessa tre ordini di questioni: la questione politica (il diritto di una donna a potersi esprimere sul tema famiglia solo se madre), la questione della genitorialità (i figli sono di proprietà dei genitori), la questione di genere che, in parte, è premessa di entrambe.

Politicamente parlando, chi si appella costantemente a valori inviolabili e “sacri vincoli”, spesso lo fa per nascondere ragionamenti di carattere laico e materiale (come il mantenimento di uno status quo sociale discriminante e iniquo) finalizzati all’affermazione e consolidamento di una parte sociale. Parlare di sacro vincolo della maternità significa rimandare ad una visione della donna, da un punto di vista culturale e sociale, quale essere che può avere piena realizzazione e quindi pieno diritto di espressione, solo in quanto generatrice. Senza considerare scelte e casualità della vita. Una visione parziale e “faziosa”, che non differisce in nulla, se declinata secondo altri paradigmi culturali, da quella di chi sostiene che una donna non possa votare, scegliere liberamente se e con chi formare una famiglia o un uomo non possa, se di casta sociale bassa, studiare, svolgere determinate mansioni. Un sistema di controllo sociale, meramente politico, ma giustificato da valori superiori e indiscutibili.

Valori che la parte politica di cui l’assessore è espressione dice di voler difendere, ma a cui dà corpo soltanto attraverso l’ostentazione dei simboli (rosari, crocifissi, testi sacri), mai secondo un ragionamento articolato. Stando al discorso della “proprietà” dei figli, ad esempio, già nella Bibbia, un testo che, di sicuro, non rientra nel pericoloso elenco dei libri gender stilato dagli accaniti difensori della famiglia tradizionale, Re Salomone aveva stabilito la vera genitorialità fra due madri che si contendevano un bimbo attraverso una prova che implicava, da parte loro, la scelta del bene del bambino e non il proprio egoistico appagamento personale. Di sicuro nei Vangeli, spesso dimenticati dai feticisti da rosario e dai devoti da piazza, l’immagine della famiglia risulta complessa, articolata e soprattutto basata sul concetto che i figli sono dono di dio e di un suo progetto, piccolo o grande che sia, su di loro. Sappiamo però che la coerenza, fra predicar bene e razzolare male, non è il punto forte di molta classe politica, in particolar modo quella che condanna l’aborto come omicidio e lascia annegare i bambini in mare o morire di sete nel deserto.

Cosa ancor più grave però (e premessa di tutti i ragionamenti precedenti) è che l’assessore sembra non avere la minima coscienza del percorso culturale che l’ha portata alla sua affermazione: secoli di patriarcato che hanno fatto sì che una donna (molte donne a dire il vero) non si renda conto di portare avanti una visione discriminante, ghettizzante e mortificante di sé stessa, autorizzata ad esprimersi solo in quanto madre. Non si può parlare di ciò che non si vive in prima persona. Portando alle estreme conseguenze il ragionamento dell’assessore non dovremmo occuparci di politica, perché la politica è esercizio dell’ascolto, capacità di sintesi e mediazione, elaborazione di progetto. Tutto il contrario dell’espressione parcellizzata, minimale e disaggregata di un’opinione personale come verità generalizzabile.

Sempre portando alle estreme conseguenze il ragionamento dell’assessore, della donna dunque non si dovrebbe parlare, da parte maschile, e viceversa. Peccato che questo tipo d’impostazione sia frutto di secoli di scelte politiche portate avanti quasi esclusivamente da uomini, che parlano – fra l’altro – tranquillamente di maternità, famiglia, diritti e doveri delle donne.

Nessuno si sognerebbe mai di dire che un uomo non può parlare di terza età in quanto non è ancora mai stato vecchio. Così come nessuno si sognerebbe di dire che non può parlare di lotta alla povertà se non è mai stato povero. Sarebbe incorrere nell’errore della politica fatta per opinione, per sentito dire o, peggio ancora, per sola esperienza personale. Ma forse è proprio questa la deriva ultima di un sistema che afferma e non dubita mai, che preferisce l’adesione per fede alla comprensione ragionata. Un sistema nel quale una donna non comprende di aver preso parte, con un atteggiamento di gravità inaudita, a una storia di discriminazione che, a prescindere dal credo politico, dovrebbe lei per prima combattere nel suo ruolo.

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