Questioni di genere

DE&I: inclusione reale o mitigazione dell’esclusione?

12 Luglio 2024

Le aziende europee, e quelle italiane in particolare, sono davvero inclusive o sbandierano motti arcobaleno solo per accumulare consensi (…avete presente il pink washing?) ?

La lotta all’esclusione sociale e la parità di genere sono alcuni degli obiettivi specifici in materia di lavoro e politica sociale dell’UE e degli Stati membri. Con il proprio sostegno agli Stati membri nella lotta alla disparità tra generi, così come all’esclusione sociale e alla discriminazione, l’Unione europea si propone di rafforzare il carattere inclusivo e la coesione della società europea e far sì che tutte le persone abbiano parità di accesso alle opportunità e alle risorse.

E così il Diversity Management, come strumento di valorizzazione e inclusione delle diversità all’interno dei sistemi organizzativi complessi, ha oramai conquistato la scena nelle grandi aziende del mondo e, come prevedibile, sta caratterizzando anche il contesto italiano.

Insomma, l’idea che la diversità (parola che preferirei sostituire con “molteplicità”, come suggerisce Vera Gheno in “Chiamami Così”) sia un valore, è ormai un pensiero consolidato e condiviso. Ci troviamo infatti tuttƏ d’accordo nel sostenere che l’età, il genere, la provenienza etnico/culturale, le abilità ed altre differenze rappresentano una risorsa per le aziende, non solo dal punto di vista economico ma anche, e soprattutto, culturale. In teoria.

Il tema sta infatti diventando sempre più rilevante nell’agenda delle imprese di tutto il mondo, ma in Italia solo il 6% di esse sta realmente sviluppando una cultura inclusiva sul posto di lavoro; il 94% sta mettendo in pratica più che altro azioni di “mitigazione dell’esclusione”. È quanto emerge dall’EY European DE&I Index1, un’analisi sul tema della diversità e inclusione realizzata da EY in collaborazione con FT-Longitude, raccogliendo l’opinione di 1800 persone tra manager e dipendenti provenienti da nove paesi europei: Austria, Bruxelles, Paesi Bassi, Svizzera, Italia, Portogallo, Spagna, Francia, Germania. Ma concentriamoci sul nostro Paese.

La situazione italiana in termini di Diversity, Equity & Inclusion (DEI) è complessivamente buona: il 44% delle persone intervistate ritiene che la propria organizzazione dimostri un approccio coerente con i temi DE&I e il 55% giudica “buono” l’impegno della propria azienda per la creazione di un clima di fiducia e trasparenza. Tuttavia, soltanto 2 dipendenti su 5 dichiarano di poter essere sé stessƏ e sentirsi concretamente accettatƏ negli ambienti lavorativi.

Dall’indagine risulta che il 47% delle persone che lavorano in azienda (contro il 36% dei colleghi europei) ha subìto episodi di discriminazione sul luogo di lavoro. Sussiste inoltre un divario tra manager e dipendenti quando si parla di sentirsi a proprio agio sul luogo di lavoro: se il 72% delle figure manageriali si sente in grado di essere sé stessƏ e di sentirsi accettatƏ sul lavoro, la percentuale scende di quasi 30 punti percentuali quando a rispondere è il personale impiegatizio e/o operaio. Ne consegue che i gruppi sottorappresentati (che includono dipendenti che si identificano con uno o più dei seguenti aspetti: donne; minoranza etnica o culturale; LGBTQAI+; appartenenza ad una categoria socioeconomica inferiore; persone con una o più disabilità) hanno meno probabilità di sentirsi ascoltatƏ e veramente parte di un gruppo.

Fra le azioni introdotte dalle aziende spiccano quelle dedicate a contrastare la disparità di genere e/o culturale (rispettivamente 70% e 40%), mentre solo il 29% ha adottato misure per l’inclusione di persone LGBTQAI+, il 23% per colmare le disuguaglianze socioeconomiche e il 14% per l’inclusione delle persone con disabilità. Ahimè, per il 35% l’inclusione della disabilità non è proprio prevista nei piani DE&I della propria azienda.

Dati che si riflettono anche nella percezione che Ə lavoratorƏ hanno delle proprie aziende: il 57% di loro ritiene che la propria organizzazione abbia un buon livello di diversità etnica e culturale (in linea con la media europea), ma il 48% e il 44% valuta scarso rispettivamente il livello di diversità socioeconomica e l’inclusione delle persone con disabilità.

Dunque, come dicevamo, crescente attenzione ai temi di DE&I, ma da questo non consegue un grande impegno concreto sulle azioni utili a raggiungere l’ambizioso obiettivo dell’inclusione, nonostante i nobili principi morali da cui si parte.

Un piccolo esempio è lo sforzo delle aziende per la parità di genere: si lavora sullo sviluppo delle donne manager (sempre poche, nonostante gli alti livelli di competenza professionali e preparazione accademica) ma non si affronta a dovere il tema della disparità retributiva, della flessibilità orario o dei congedi parentali per padri.

E l’elenco delle incongruenze tra proclami e azioni concrete potrebbe andare avanti.

Ma, come fare per determinare se le iniziative di inclusione aziendale sono davvero inclusive o solo una forma di mitigazione? È necessaria un’analisi approfondita delle pratiche e dei loro effetti sulle persone.

Alcuni fattori da considerare sono la valutazione dello scopo delle iniziative, ad esempio se sono guidate da un genuino desiderio di creare un ambiente di lavoro equo e inclusivo per tutte le persone in azienda, oppure sono semplicemente una risposta a pressioni esterne e questioni di immagine.

Osservare se le voci e i vissuti delle persone, a tutti i livelli di gerarchia e di ogni background, vengono ascoltate e prese in considerazione; se i gruppi minoritari sono adeguatamente rappresentati nella progettazione e realizzazione delle iniziative, oppure se queste ultime sono calate dall’alto e Ə manager decidono dove e come intervenire, peccando magari di tokenismo (il fenomeno attraverso cui gruppi di maggioranza reclutano persone appartenenti a gruppi di minoranze -principalmente etniche o di genere- per lanciare un messaggio di inclusività, che molto spesso si rivela essere inclusivo solo a parole).

E poi, le iniziative introdotte sono state valutate dalle persone coinvolte e hanno davvero portato a un cambiamento misurabile nella cultura aziendale? Il top management è disposto a rendere conto dei propri successi o fallimenti in materia di inclusione, facendo propri i valori della comunicazione, dell’ascolto e della trasparenza? L’azienda comunica in modo trasparente i progressi compiuti?

E infine, la responsabilità per l’inclusione è affidata a un team o è integrata in tutta l’organizzazione? E ancora, c’è una tolleranza zero de facto per i comportamenti discriminatori o offensivi. I dipendenti appartenenti a gruppi minoritari continuano a subire disparità in termini di retribuzione, promozioni e opportunità di sviluppo professionale?

E così via.

Se tali criteri sono soddisfatti, o quanto meno la maggior parte di essi, è più probabile che le aziende siano effettivamente inclusive e non servano solamente a dare un barlume di inclusività.

La questione non è più procrastinabile, si tratta di creare un ambiente di lavoro in cui chiunque possa sentirsi rappresentatƏ, valorizzatƏ e rispettatƏ così da potersi esprimere liberamente, dando il meglio di sé e portando davvero un valore aggiunto.

La DE&I è molto più di una semplice tendenza aziendale o un’etichetta da apporre sulle brochure delle aziende. È una filosofia, un modo di vivere e lavorare che abbraccia ogni individuo dietro a ogni volto, dietro a ogni esperienza, e la accoglie come una risorsa preziosa.

 

1 https://www.ey.com/it_it/news/2024-press-releases/04/aziende-italiane-inclusione-dei

 

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