Questioni di genere

Il vezzoso monsignor Charamsa ha pensato a sé, non agli omosessuali

4 Ottobre 2015

Per come è stato allestito e concepito, il «coming out di monsignor Charamsa è stato ad uso molto personale e personalistico, per questo produce un senso di  irritazione per quello che sarebbe potuto essere e non è stato. E non ha avuto affatto come perno il tema dell’omosessualità all’interno della Chiesa, anche se naturalmente lo scandalo di superficie è quello, ma più banalmente la rappresentazione scenografica della coppia omosessuale all’interno di uno dei segmenti della società che non lo prevedono, in questo caso il mondo cattolico, né più né meno di una coppia omosessuale laica che si presenta dal prete del paese per farsi sposare e viene respinta in malo modo. Portare il proprio compagno sul proscenio di una vicenda del genere, anche con qualche accenno “glam” ad uso dei cronisti, ha depotenziato in modo inesorabile, quasi matematico, la sostanza vera di una battaglia che avrebbe potuto avere connotati rivoluzionari e che invece imbarazza la Chiesa molto meno di quel che si sarebbe potuto immaginare, solo agendo in maniera più chirurgica, opponendo “solo” la propria omosessualità come contraddizione massima all’interno di un recinto così retrogrado.

E invece, introducendo volutamente il tema antico della castità, monsignor Charamsa ha reso un grandissimo favore agli elefanti vaticani, ai quali non è parso vero di spostare il peso di una vicenda molto più complessa e imbarazzante nello stagno dei “doveri” del buon prete che deve temperare i propri istinti sessuali, arrivando – come ha potuto agevolmente risolvere il cardinal Ruini – a parlare di sé nei termini disinvolti che sappiamo: «Direi a monsignor Charamsa – così ha sottolineato l’ex presidente della Cei – che come prete ho anch’io l’obbligo di tale astinenza e in più di sessant’anni non mi sono mai sentito disumanizzato e nemmeno privo di una vita d’amore, che è qualcosa di molto più grande dell’esercizio della sessualità».

Sono le parole perfette di qualsiasi buon prete consapevole, amato dai suoi fedeli, le potrebbe dire don Ciotti e le apprezzeremmo parimenti: «Una vita d’amore (di un sacerdote) è qualcosa di molto più grande dell’esercizio della sessualità», cosa c’è di più conseguente di un concetto così alto? Il discrimine è sempre stato quello, quella sottile linea rossa – anche hard volendo – che ha diviso le maree, che ha introdotto nella nostra cultura, anche quella bassa delle parole sciolte in famiglia e con gli amici, la “reale” differenza tra il nostro mondo e il loro. Del resto, sin da piccoli, cosa ci è sembrato universale, se non quell’incredibile sacrificio di non cedere alla tentazione della carne, ci è sempre parso un obiettivo irraggiungibile, di portata siderale, al quale neppure tendere – e perché poi – essendo appannaggio di pochi eletti. I preti, appunto. E, badate bene, anche a noi mezzi cristiani non è mai parso un obiettivo «inutile», in quel territorio sacrificale ci abbiamo sempre visto la forza non comune di una missione, di una fede inconcepibile ma straordinaria, e dunque meritevole di stupefazione, anche se non di immediata comprensibilità.

Ma la battaglia di Charamsa non doveva essere quella del sesso consapevole, quella poteva farla un prete qualsiasi, una suora tra tante, e non necessariamente omosessuale, ecco la questione. La castità violata è questione che riguarda tutte le sensibilità della sessualità, che siano etero o gay. La questione dirimente, invece, era non regalare nulla all’establishement, e non certo l’atout della castità, ma battersi perché la questione omosessuale avesse un cristallino riconoscimento all’interno della Chiesa Cattolica. Parliamoci chiaro: se monsignor Charamsa si fosse “limitato” a dichiararsi felice della propria condizione omosessuale, rivelandola con grande scandalo, Ruini e compagnia non avrebbero potuto esibire come questione dirimente solo quella della castità violata, dovevano cavare fuori ben altri argomenti!

Sentite come risolve agevolmente il cardinale Velasio De Paolis, delegato pontificio presso i Legionari di Cristo, in un’intervista a Repubblica: «Monsignor Charamsa ha fatto evidentemente ciò che riteneva giusto, tuttavia penso che bene ha fatto il Vaticano a intervenire perché egli ha tradito, dando anche pubblico scandalo, l’obbligo del celibato a cui ha detto sì il giorno dell’ordinazione sacerdotale dimostrando di voler vivere una convivenza». E alla domanda se “una tendenza omosessuale è peccato per la Chiesa?”, DePaolis risponde: «Di per sé la tendenza omosessuale no. Ma se l’omosessualità è esercitata, una persona non può essere ordinata. La stessa cosa, del resto, vale per un eterosessuale che non sa contenersi».

A non contenersi, purtroppo, è stato proprio monsignor Charamsa la cui battaglia temiamo non sarà di grande aiuto per la questione omosessuale all’interno della Chiesa. Ci ha messo anche la sua nuova vita felice, regalando agli elefanti una sin troppo facile via d’uscita.

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