Questioni di genere
Cara Tajani, le foto “soli maschi” esibiamole, altro che nasconderle
Gentile Assessore Tajani,
ho letto ieri sul suo profilo Twitter, e oggi riportata da “Affari Italiani”, la sua proposta di non pubblicare più sui siti istituzionali le foto di convegni o incontri dove compaiono solo uomini, seguita all’immagine circolata per la conferenza stampa di Book City nella quale, ancora una volta, non compare nemmeno una donna. C’ero lo scorso anno quando aveva sollevato una simile polemica per la foto #tuttimaschi in occasione dell’apertura del Salone del Mobile. Quella volta ero stata raggiunta da un messaggio di una collega del Politecnico che mi aveva invitata a unirmi in piazza della Scala a una foto di reazione insieme ad altre donne del settore design. A dire il vero, quando ho ricevuto l’invito allegato alla foto galeotta confesso di non aver immediatamente colto lo scandalo. Credo che sia per questo che non ho aderito allora alla protesta: il fatto di non essermi riconosciuta offesa da quella immagine mi ha indotto a pensare che non era il caso di unirmi a chi le denunciava (per altro secondo me ciascuna mettendoci dentro del sentimento – o risentimento – molto privato e quindi in assoluto e per rispetto unico, non condivisibile), indipendentemente dal poterne comprendere le ragioni. In quel preciso caso, le dico la verità, la nota davvero stonata che avevo rilevato nell’immagine era piuttosto la presenza alquanto strana tra gli attori dell’allora Ministro degli Interni che ancora non mi spiego. Ma tant’è.
Lei, se capisco bene, propone non tanto di boicottare eventi nei quali non ci sia una rappresentanza adeguata di genere, ma la diffusione delle immagini a essi relative. Questo, mi perdoni, ha tutta l’aria di quello che se la prende col medico che gli diagnostica una brutta malattia e confida che, evitando di vederlo e sentirselo dire, la malattia sparisca. Ma ha anche l’aria di qualcosa di più grave che è la censura. Provo a comprendere quello che sta dietro alla sua provocazione e immagino che possa essere legato al fatto che voglia limitare la diffusione di immagini che contribuiscono a raffigurare una realtà distorta e quindi veicolare il messaggio che il mondo del design appartenga agli uomini. Le confermo, da un osservatorio piuttosto privilegiato come quello da cui ho la fortuna di guardare il design, che in questo non solo lei è nel giusto, ma che questi signori, se davvero pensassero così, sarebbero fortemente nel torto: basta entrare in un’aula universitaria e vedere la composizione delle classi per rendersi conto di come il tasso di iscrizioni femminili ai corsi di Laurea in Design e la sempre maggior presenza di professioniste, studiose, curatrici donne stia naturalmente modificando il dna della disciplina stessa. E questa trasformazione nemmeno troppo lenta ha un secolo di storia alle spalle, fatta da donne che sono cresciute con l’idea di dover diventare i migliori maschi possibili, donne che hanno patito la loro condizione, che hanno sofferto gli ambienti maschili, che ce l’hanno fatta, in fondo, nonostante fossero donne. Studiare la storia e le biografie di queste signore, leggerne le immagini, è esattamente lo strumento che serve per misurare il cambiamento, omaggiandole anche del fatto che oggi, grazie al cielo, le donne nel design possono permettersi di essere brave e basta, senza scandalo accedendo a molte più possibilità di quelle che non erano garantite anche solo trent’anni fa. Ma se lei cancella le immagini, se nega la possibilità che ciascuno e ciascuna in libertà si facciano un’idea propria, affonda la storia e rischia di prestare un cattivo servizio al suo lavoro.
Il settore del design in Italia – parlo per quello che conosco, ma immagino valga anche per quello che non conosco – è fatto da una storia patriarcale fortissima e da tanti ego maschi ma anche da tanti ego femmine, in parte prodotto di quella storia. Per me aderire a una sorta di reazione di gruppo, quando è evidente che un gruppo non esiste – e per fortuna! ché sarebbe comico aggregarsi come la costituente delle recriminazioni di genere, “ognuno a rincorrere i suoi guai” – corre il rischio di ridurre di nuovo il problema a una questione numerica, di quantità e di apparenza e anche di rafforzare, in questo caso sì!, un messaggio sbagliato e cioè che in fondo quello che importa alle donne sia essere in foto, che per essere legittimate ci occorra il benvenuto degli uomini, che la nostra affermazione dipenda dallo spazio che ci lasciano sul palco o dietro un nastro.
Ora, ho appena concluso una mostra in cui ho raccontato le infanzie dei maestri del design del Novecento. Erano 24 ritratti. Quante bambine? 4. Avrei potuto, sa, metterne 12. Sforzandoci avremmo potuto portare all’emersione voci sommerse di donne designer, ma non era il senso della mostra e, soprattutto, non era il senso della Storia. Sarebbe stato irriguardoso verso tutti gli attori. Abbiamo scelto i migliori e, nel Novecento del design, queste sono le proporzioni che tornano con la scolarizzazione, l’equità sociale, la possibilità di accesso ai lavori culturali, etc. Se vuole è proprio metterne solo 4 che può denunciare quale fosse la condizione a quel tempo (mettendo chi può nella condizione di compararla mentalmente con una mostra sui contemporanei in cui le proporzioni sarebbero molto diverse). Provare a esibire la storia com’è potuta essere, grazie anche all’uso delle immagini che circolavano. Davvero, io più guardo la foto di allora del Salone del Mobile e più penso che la didascalia perfetta sarebbe stata “i narcisi del design”, una foto che mi fa più sorridere che arrabbiare, che del nostro tempo racconta moltissimo e proprio per questo va fatta circolare: racconta quanto nella costruzione di una foto oggi si rifletta l’ego dei soggetti ritratti e il loro bisogno di apparire (non la chiamiamo selfie solo perché la macchina fotografica non la tiene in mano il sindaco).
La mia proposta quindi è: non si boicotti, non si nasconda, non ci si metta in una posizione di bisogno di legittimazione, non si presuma una faziosa solidarietà di genere che a chiunque vive il settore da dentro non può che provocare una allegra risata. Piuttosto – se proprio necessario – si denunci, si portino dati, evidenze, si oppongano studi. Ma, anche a beneficio di quelli e quelle che non hanno visto in quelle foto ciò che ha visto lei e della possibilità che in un futuro libero ce ne si dimentichi proprio di fare i conteggi, evitiamo di mettere chiunque nella posizione di essere convocato in uno scatto fotografico per mettere a posto la coscienza di qualcuno. Se lei pensa che ci siano donne che dovevano essere dietro quel nastro e che sono state ignorate, faccia i nomi, ma non si aspetti che se quegli uomini sono stati tanto zoticoni da non accorgersi che c’erano delle valide presenze femminili da chiamare, riescano a capire che non è di essere in una foto di gruppo che ci importa. O sbaglio?
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