Filosofia

“Capelli grigi” o “fili d’argento”: alla radice del problema

8 Ottobre 2021

Caro Cigno Nero,
riflettevo sul fenomeno “grombre”, il sale e pepe dilagante dagli Stati Uniti all’Italia. Complici il lockdown passato e la chiusura dei parrucchieri, si era posto un PROBLEMA cruciale da risolvere: come fare coi capelli bianchi? Nasconderli con la tintura fai-da-te o celebrare la trasformazione? E così ha sfondato questa nuova tendenza, diventata comune ormai anche tra le dive, che evidenzia una lotta orgogliosa contro la schiavitù del colore. Ma la rivendicazione del bianco/grigio naturale, ritenuto addirittura chic, sta ispirando anche una nuova mentalità: può essere un modo per riappropriarsi della peculiarità del proprio aspetto naturale? Può diventare simbolo di una vita vissuta?

Eva

Cara Eva,
in pochi anni “grombre” è diventato un movimento di portata internazionale, che sembra andare oltre una tendenza. Guardiamolo quindi più da vicino. Nato nel 2016 da un’idea di Martha Truslow Smith, 26enne che decideva di tenere e sfoggiare i suoi capelli grigi contro ogni pregiudizio, prende il nome dall’accostamento di due termini: “grey”, grigio, e “ombré”, tecnica di colorazione dei capelli che fonde due tonalità schiarendo alcune ciocche e le punte, e dona un effetto di lucentezza naturale ‒ oltre a risolvere il problema della ricrescita ‒.
Da piccola comunità che era, oggi #grombre conta più di 200mila follower in tutto il mondo, e nel nostro paese trova rappresentanza nel gruppo delle Silver Sisters Italia.
Puntualizziamo l’ovvio ricordando che il sale e pepe è sempre stato sinonimo di fascino su una testa maschile, oltre che segno di saggezza e maturità. Per le donne vale esattamente il contrario, o almeno fino a ieri è stato così. La stragrande maggioranza della popolazione femminile abbraccia più o meno consapevolmente la “cultura”, che ci vuole subalterne e sottoposte, a una tintura, una crema di bellezza o qualsiasi altro vincolo che lo specchio sociale ci chiede di rispecchiare. Poiché la naturalezza del proprio corpo e della propria chioma viene tradotta sbrigativamente in termini di “vecchiaia”, è sempre stata una piccola minoranza di donne a preferire la “natura”.
“Grombre”, allora, non è solo un modo di sovvertire un canone estetico imposto dallo sbilanciamento tra i sessi, ma un contributo al raggiungimento di quell’equilibrio che l’essere umane e umani richiede.
Radicali sono quei cambiamenti che intaccano la base, cioè le radici, e chi meglio del movimento grombre, che lo fa fuor di metafora ‒ visto che è proprio dalla radice che parte, quella dei capelli ‒, può raccontare un cambiamento?
Proprio perché ne va di una piccola grande rivoluzione, forse vale la pena interpellare il nostro senso critico, e chiederci: siamo sicure che si tratti di riappropriarsi del proprio aspetto naturale o, piuttosto, rischiamo di rispecchiare un ennesimo costrutto culturale dettato da una moda?
Se la scelta del grigio da parte di diverse donne dello spettacolo ha incoraggiato una tendenza che predilige l’aspetto naturale, non condizionato e libero da tutti quegli artifici per fermare i segni del tempo, è anche vero che quella stessa tendenza potrebbe rivelarsi molto più vicina ad un concetto di “moda” che, come tale, non può che essere transitoria. Che ne sarà dei nostri capelli grigi, portati con orgoglio e ispirati da bellissime donne che magari hanno sfilato sul red carpet, tra tre o quattro anni, quando la nuova moda potrebbe chiederci delle chiome fluo? Pensiamo a cosa abbiamo visto esattamente sul red carpet: qual è il senso di quei capelli grigi su un corpo attrezzato per sfuggire al tempo e che è ricorso a tutti gli artifici possibili per ingannare lo sguardo proprio e quello altrui?
Il pericolo, quando si parla di immagine, sta nel fatto che l’immagine è sempre il risultato di una combinazione di privato e pubblico, interiore ed esteriore, perché è sempre soggetto e oggetto di uno sguardo. Accogliere una certa immagine di sé, celebrarla addirittura, non può essere un processo affidato unicamente ad un modello esteriore e temporaneo. Il modo in cui decidiamo di portare il tempo su di noi deve originare anzitutto da un interrogativo sulle motivazioni: quanto dipendono dai media e quanto dall’accettazione consapevole dei segni che il tempo incide su di noi? Quanto dall’imitazione di un modello e quanto invece dalla forza di non essere da sole nel rivendicare la libertà di essere ciò che si è?
Per diventare segno di un concetto altro, di una immagine diversa della donna, i capelli grigi devono forse compiere un percorso che li porta dal concreto all’astratto ‒ “astratto” per come lo intendeva Hegel, cioè non come etereo e quindi privo di significato, ma vero nella misura in cui è capace di cogliere l’essenza e la ragione che vanno oltre le singolarità, oltre la chioma di una diva, oltre il gusto del momento ‒ per poi tornare al concreto di una scelta differente. Prima di essere moda e/o modo di portare in giro la propria testa, i capelli grigi devono essere il senso di quella scelta, non condizionata da nessun criterio che non sia stato interiorizzato.
Se il medesimo discorso potrebbe valere per il monociglio, la peluria libera o un fisico curvy, tutte scelte che, oltre all’irriverenza e alla sovversione di certi standard estetici, portano con sé una sacrosanta istanza di libertà, “grombre” ha in più qualcosa di molto peculiare ‒ e sta forse qui il motivo per cui è diventato fenomeno transculturale ‒: parliamo di un’altra chiave di lettura della nostra intima relazione col tempo. “Fili d’argento” o “capelli bianchi”, qualunque cosa significhino per ognuna di noi, stanno lì a testimoniare il tempo che passa.
Siamo state abituate a combattere i segni del tempo per illuderci che la vita scorra senza toccarci. Così, di fronte allo specchio ci sentiamo indubbiamente più tranquille allontanando gli assilli di quell’ombra nera che ci alita sul collo. E, detto per inciso a proposito di specchi, l’accettazione dello scorrere tempo non coincide col trascurare la propria immagine; si tratta piuttosto di  accoglierla in un concetto più ampio di cura, che comprende anche il corpo e la sua esteriorità. Ma se possiamo pure averla vinta sui segni del tempo, che siano rughe o capelli bianchi, non potremo mai vincere sul tempo.
Il tentativo di fermarlo, sussurrandoci la nostra paura della morte, forse racconta anche un’altra storia, una storia poco nota: quella di una morte che per le donne segue andature e percorsi differenti. Il volerci conservare come nel sottovuoto, tra chirurgia estetica, creme anti-età e filler, dalla punta dei capelli alla punta dei piedi, ci suggerisce che abbiamo spostato il nostro sguardo sul solo corpo. Mentre cerchiamo con tutte le forze di creare un’immagine di noi che dia importanza a ciò che siamo oltre il nostro aspetto, restiamo ancorate al corpo, come se fosse l’unico biglietto da visita di cui disponiamo. E su quel corpo proviamo a fissare un’idea di noi più vincente, come quando avevamo vent’anni e più energia, più faccia tosta, più resistenza a certi urti, consapevoli di avere una vita davanti. Così ci diciamo. Se però ripensiamo non al nostro corpo di ventenni, ma al nostro essere ventenni, subito ci vengono alla mente altrettante fragilità. Che sia proprio la fragilità, erroneamente attribuita al corpo, quella che vogliamo curare a tutti i costi tra bisturi e tinture per capelli?
Questo perché ciò che ci si chiede è di restare in piedi anche quando l’età avanza. E una testa castana, bionda o mora che sia, riproduce meglio l’immagine di sicurezza e resistenza che siamo chiamate a impersonare. Sarebbe invece molto bello che i capelli naturali fossero per noi uno dei possibili modi di pacificarci col tempo, e ricordare a noi stesse ‒ qualora l’avessimo dimenticato ‒, oltre che agli uomini, che anche da questa parte viviamo di transizioni e non si è inossidabili.

Tornando a quella storia poco nota di cui dicevamo: non è che a sostenere questa faccenda del tabù del grigio ci sia un’ idea di donna la cui morte deve sempre venire “dopo”, dopo quella dell’uomo, dopo quella dei figli, così da potersene prendere cura? Potrebbe essere che ciò che si chiede alle donne, in fondo, al di là dell’estetica, è il non morire? 

Irene Merlini e Maria Luisa Petruccelli

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