Medicina

Buon compleanno 194

22 Maggio 2018

40 anni di vita e lotta per la legge 194: per la sua difesa da attacchi che, ciclicamente, vorrebbero rimetterla in discussione, per la sua corretta applicazione. Nonostante infatti, proprio grazie a questa legge, si sia arrivati ad una progressiva diminuzione del numero di aborti in Italia (con picchi di ricorso alla pratica abortiva che si registrano in fasce di popolazione di recente immigrazione nel paese, spesso sprovviste delle necessarie conoscenze in materia di contraccezione), la 194 fatica, molto più di altre leggi, ad essere interamente applicata in ogni sua parte.

La legge infatti prevede non solo la possibilità di ricorso all’aborto, ma anche – e soprattutto – la presenza di spazi d’informazione e assistenza sulla salute sessuale e riproduttiva (i consultori) e di supporto e tutela alla maternità. Non la legge dell’aborto dunque, ma la legge della “scelta consapevole” e in capo a chi davvero deve scegliere: la donna. Un passo indietro è doveroso: prima dell’avvento della 194 l’aborto esisteva ed è sempre esistito. Ai tempi di Roma antica, ad esempio, le donne facevano ricorso a decotti a base di prezzemolo o a pratiche “meccaniche” come il salto da una scala, la compressione dell’addome, l’inserimento di “medicamenti” all’interno dell’utero tramite canule. La storia è andata avanti così, invariata, fino al Novecento. Le donne che, in clandestinità, ricorrevano all’aborto con l’aiuto delle “mammane” erano perseguibili per legge. L’aborto clandestino comportava un altissimo grado di rischio per la salute della donna che, in caso di complicazioni, spesso non si recava – per paura delle conseguenze – in ospedale, mettendo a repentaglio la sua vita. Tutto questo in un contesto in cui la pillola anticoncezionale ancora doveva sbarcare nel nostro paese (venne autorizzata, a fini terapeutici nel 1967, ma solo nel 1976 il Ministero della salute abrogò le norme che vietavano la sua commercializzazione) e in cui sessualità, metodi contraccetivi e procreazione responsabile venivano considerati argomenti tabù. Nel 1978 quindi l’approvazione della 194 fu una vera rivoluzione. Non solo permetteva alla donne che ne avessero bisogno il ricorso all’aborto sicuro, ma mirava ad eliminare il “problema” di una difficile scelta modificando la consapevolezza e l’approccio alla salute riproduttiva da parte di tutta la popolazione.

I consultori dovevano essere spazi nei quali recarsi per avere preliminarmente tutte le informazioni necessarie: dal ciclo mestruale ai metodi contraccettivi passando per la conoscenza delle malattie sessualmente trasmissibili. Aborto garantito dunque, ma solo come ultimo atto, non come metodo “sbrigativo e facile” (come sostengono tutt’ora alcuni) per risolvere il problema di una gravidanza indesiderata. Ma veniamo ai problemi. La legge non ha trovato infatti la giusta applicazione se non in alcuni, geograficamente limitati, contesti. Permettendo infatti l’obiezione di coscienza da parte dei ginecologi, in alcune aree d’Italia, ad oggi, non può materialmente essere garantito il diritto all’interruzione volontaria di gravidanza. In Molise ad esempio è obiettore il 93% del personale medico, in Trentino il 92%, in Lazio l’80%. Non va molto meglio in altre regioni, dove la soglia si abbassa, ma sulle quali, di necessità, spesso gravitano pazienti provenienti da altre aree geografiche. Con tutto il peso che – facile da immaginarsi – si riversa sulle spalle dei pochi medici non obiettori costretti, per dovere di servizio, a praticare un numero molto alto di aborti in percentuale alla restante parte delle loro mansioni lavorative. Di questo e delle conseguenze professionali, umane e sociali per i medici e infermieri non obiettori non si discute mai abbastanza. Su 654 strutture in Italia dotate di reparti di ostetricia e ginecologia, solo 390 effettuano il servizio di IVG.

Non è migliore la situazione dei consultori che, in alcune regioni, sono a completo affidamento privato (come in Trentino Alto Adige) o in numero decisamente insufficiente in relazione al potenziale accesso delle utenti (in Lombardia è attivo un consultorio pubblico ogni 10 mila donne fra i 15 e i 49 anni). In molte realtà le strutture operano con personale e orario ridotto, rendendo in alcuni casi inaccessibile alle fasce più giovani l’accesso (in caso di apertura solo al mattino ad esempio). Tutto questo senza considerare l’assoluta carenza di percorsi formativi istituzionalizzati dedicati all’educazione sessuale nelle scuole (esistono progetti a carattere locale o regionale, ma sempre nell’ambito della possibilità di scelta da parte dell’Istituto in relazione a famiglie e studenti). Anche i media in questo senso fanno poco: la generazione degli attuali trenta/quarant’enni ricorda perfettamente le campagne televisive sull’uso del profilattico, così come programmi dedicati all’approfondimento sessuale in fascia oraria accessibile. Ad oggi parlare di contraccezione, sessualità e aborto in “fascia protetta” sembra essere diventato un tabù. Tutto a danno delle più giovani generazioni.

Veniamo alle più recenti e dolenti note. Risale a pochi giorni fa la denuncia da parte di Emilio Arisi, presidente della Società Medica Italiana per la Contraccezione (SMIC) circa la cancellazione dalla farmacopea ufficiale del Ministero della pillola del giorno dopo. In parole povere questo farmaco non è più considerato fra quelli indispensabili da tenere sempre in farmacia. Peccato però che sia un farmaco la cui funzione è garantita entro tempi ristretti e la sua efficacia tanto maggiore quanto prima viene assunto dalla paziente. Inutile sottolineare quali ripercussioni questa scelta possa avere in realtà territoriali dove esiste una sola farmacia di riferimento. Eppure, dalla sua immissione in commercio, si è registrato un sostanziale e importante calo nel numero degli aborti volontari. Un caso? Dove la legge 194 viene correttamente applicata, dove si fa formazione e informazione, dove si mettono a disposizione delle donne tutti gli strumenti necessari per poter scegliere consapevolmente, l’aborto diventa automaticamente una procedura alla quale ricorrere in casi estremi. Gli attacchi a questa legge procedono invece di pari passo con una politica che sembra voler ostacolare la libera scelta delle donne in materia di salute sessuale e procreativa. Senza fra l’altro che a questo corrisponda (anche se in nessun modo sarebbe comunque una giustificazione) una pratica quotidiana di tutela della maternità (supporto economico, agevolazioni, inserimento lavorativo, assistenza e sostegno pre e post parto).

Il messaggio pare semplice: la maternità è sacra e deve restare “inconsapevole”, ma è sacra fino al parto. Poi diventa un problema personale. E per le donne, comunque vada, il messaggio suona sempre come un “arrangiatevi come potete”.

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