Innovazione
Biotech, frigo mobili e permacultura: l’innovazione italiana è femmina
66,8% contro 48,8%. Sono, rispettivamente, il tasso di occupazione maschile e femminile in Italia secondo i dati Istat di giugno. E la situazione è ancora peggiore nel Mezzogiorno, dove nel 2015 l’Istat segnalava un’occupazione di appena il 30,6% tra le donne. E anche se il 2017 è stato l’anno con più donne occupate dal 1977 (anno di avvio delle serie storiche), non bisogna cantar vittoria. In primis perché la qualità dell’occupazione offerta alle donne è, in generale, scarsa. Come faceva notare a marzo la statistica Linda Laura Sabbadini, «le donne, più degli uomini, sperimentano la precarietà con la conseguenza di più basse retribuzioni e instabilità economica».
Del resto non è una novità che nelle classifiche sull’uguaglianza di genere l’Italia non se la cavi bene. Le donne italiane, ad esempio, sono tra le meno occupate della UE, dove la media è di circa il 60% (fa peggio solo la Grecia). E anche quando hanno un lavoro, spesso hanno una busta paga più leggera dei colleghi maschi con lo stesso livello di mansioni e istruzione. In media il divario è pari all’11%, ma fra i laureati schizza al 36,3%. E dire che le donne del Belpaese sono più istruite dei loro connazionali maschi…
Nel Global gender gap index 2016 del World Economic Forum l’Italia è al 50° posto, superata non solo da economie più avanzate come Francia, Germania, Svezia o Svizzera, ma persino da economie di mercato giovani e meno sofisticate quali Polonia, Portogallo e Moldavia. Altro dato significativo: le donne ai vertici delle aziende italiane sono poche. Per esempio, nel caso delle imprese ad amministratore unico, solo 1 su 5 ha una donna alla guida. Con buona pace di studi come quello del Peterson Institute for International Economics, secondo il quale le aziende con più dirigenti donne hanno anche migliori prestazioni.
Non a caso una maggior occupazione femminile è auspicata tanto dagli economisti neo-keynesiani che da quelli liberisti (come Ludwig von Mises, femminista ante litteram). Nel 1984, al culmine della Reaganomics, la rivista liberista The Freeman scriveva: «Le donne sono responsabili della gran parte della ricchezza economica del mondo. Si tratta di un’affermazione drastica, ma a sostenerla vi sono abbondanti prove. Il contributo che le donne hanno dato nel passato alla crescita economica rappresenta una misura del loro potenziale» (traduzione dell’Istituto Bruno Leoni).
Ma il tema va ben oltre l’economia. Per Carlo Galli, ordinario di storia delle dottrine politiche presso l’Università di Bologna (e deputato di Art.1 – MDP), le ragioni della sottoccupazione femminile in Italia hanno anche a che fare con motivazioni politiche, culturali e sociali. «Basti pensare che fino a poco tempo fa era possibile assumere una donna facendole firmare delle dimissioni in bianco da usare in caso di maternità – sottolinea –. Ma in generale molte donne sanno che, anche dopo aver trovato un lavoro, si troveranno in difficoltà nel caso di una gravidanza. Questo è un fenomeno di carattere socio-politico. Si tratta della scarsità e della debolezza delle politiche per la maternità e per la famiglia».
Senza arrivare alle socialdemocrazie scandinave (in Svezia il tasso di fecondità per donna è di 1,9), si guardi alla vicina Francia, che grazie alle eccellenti misure di sostegno alla maternità vanta il tasso di fecondità più alto d’Europa. Per Emanuele Felice, professore di economia e storia economica all’Università di Chieti-Pescara, «lo Stato potrebbe intervenire con politiche di welfare, che mettano le madri più o meno nelle stesse condizioni lavorative dei padri, come avviene ad esempio nel Nord Europa. Da evitare assolutamente, invece, le politiche di agevolazione specifica per le lavoratrici femminili, quali incentivi fiscali ad hoc o, peggio ancora, sconti salariali».
Detto ciò, continua l’economista, «all’origine della discriminazione femminile ci sono anche motivi culturali, che si combattono ad esempio con campagne di sensibilizzazione. Gli effetti richiederanno più tempo, ma, proprio in ragione di ciò, sarà bene cominciare: a tutt’oggi tali politiche mi sembrano inesistenti».
Eppure l’Italia avrebbe tutto da guadagnarci da una piena occupazione femminile. Lo segnalava già nel 2012, vox clamantis in deserto, il Centro studi Confindustria: «facendo aumentare il tasso di occupazione femminile (47,7% nel terzo trimestre del 2012) fino a portarlo ai livelli di quello maschile (66,7%), il PIL italiano potrebbe aumentare di circa il 13,6%». Cifre esagerate? Per nulla. Nel 2015 il think-tank americano McKinsey Global Institute faceva una stima sull’aumento di PIL globale che un’uguaglianza di genere planetaria avrebbe potuto generare in un decennio: sino a 28 trilioni di dollari.
Secondo Felice non ci sono dubbi che la sottoccupazione femminile rappresenti un significativo freno alla competitività e alla crescita dell’Italia. «Impedisce la piena valorizzazione del “capitale umano”, cioè delle competenze di una parte della forza lavoro. – dice – Ed è un problema avvertito soprattutto nel Mezzogiorno».
In attesa che la politica si metta in moto, una risposta dal basso è già partita. Infatti sono sempre più numerose le donne che invece di cercare lavoro, se ne creano uno da sole. Soprattutto nel terziario: secondo i dati forniti l’anno scorso da Terziario Donna Confcommercio e Censis, è questo il settore dove operano 7 imprenditrici su 10. Non mancano però le startupper.
«Nel primo Startup Weekend che ho organizzato a Trento, nel 2012, c’erano solo 4 donne su 120 partecipanti – spiega Paolo Lombardi, esperto di startup e mentor –. In quello tenutosi lo scorso maggio a Milano, le donne erano quasi la metà di tutti i partecipanti». Certo, le startup innovative a guida femminile in Italia sono ancora il 13% del totale (dati 2016) ma il trend è pur sempre in crescita: basti pensare che nel 2015 erano il 12,4% contro l’11% del 2013.
Si consideri il caso di Linda Avesani. 42 anni, un PhD in biotecnologie, la ricercatrice è responsabile scientifico di Diamante, startup che sviluppa e produce kit diagnostici per malattie autoimmuni. E lo fa grazie a una tecnologia nuova e rispettosa dell’ambiente, che permette «l’utilizzo delle piante per la produzione ecosostenibile di nanoparticelle basate su virus vegetali modificati», come si legge sul sito della startup.
Per Avesani passare dal mondo dell’accademia a quello dell’impresa è stata una scelta naturale. «Le biotecnologie hanno una forte carica innovativa – dice a Gli Stati Generali –, e io ho sempre fatto ricerche di tipo applicativo». In questo momento la startup sta lavorando per certificare la sua tecnologia, e al contempo cerca nuovi fondi per sviluppare altri prodotti.
«Di recente – continua Avesani – abbiamo ottenuto due finanziamenti, uno regionale e uno europeo». E se il biotech in Italia ha vita dura (colpa di investimenti dal privato più bassi che in altri paesi – appena 16 milioni nel primo semestre 2016) Avesani sottolinea che il team di Diamante, al 100% femminile, «per ora non ha riscontrato alcuna difficoltà legata al genere, e siamo sicure che continuerà a essere così».
Rispetto dell’ambiente e attenzione alla sostenibilità sono al centro di molte startup e nuove aziende a guida femminile. È il caso di Al.va, giovane azienda di Casale Monferrato, nell’alessandrino, che produce allestimenti frigoriferi personalizzati, rigorosamente su veicoli ad impatto zero. «Il nostro prodotto è unico e brevettato – racconta Miriam Manassero, 29 anni e CEO dell’azienda –. Abbiamo scelto di abbinare le tecnologie frigorifere, già presenti nel nostro territorio, a dei veicoli totalmente elettrici per il settore del cibo di strada». Insomma, hanno puntato sulla vocazione del loro territorio (il distretto della refrigerazione di Casale Monferrato è rinomato nel mondo) per creare una tecnologia esportata in tutta Europa.
Manassero non è la sola a declinare i saperi del proprio territorio in chiave ultramoderna. Due giovani siciliane, per esempio, hanno fondato Orange Fiber, startup che crea tessuti dai residui degli agrumi. «La nostra è una startup innovativa – dice Enrica Arena, co-fondatrice –, abbiamo sviluppato e brevettato un processo per trasformare ciò che resta dopo la spremitura iniziale delle arance (il cosiddetto pastazzo) in un tessuto sostenibile. Sostenibile perché viene da una materia prima rinnovabile e che altrimenti andrebbe smaltita».
Le sfide non mancano, però sembra che i risultati arrivino. «Verso la fine dell’anno scorso abbiamo creato il primo impianto pilota in Sicilia – continua Arena –, e realizzato la prima produzione semi-industriale per Ferragamo, il nostro primo cliente».
Tra le nuove imprenditrici non manca chi torna alla terra, settore tradizionale per eccellenza. Ma con un approccio nuovo. È il caso di Serena Stocco, trentaduenne e fondatrice di FavolOrto, provincia di Udine. Un progetto appena nato, per «produrre verdura senza chimica, rispettando i tempi naturali delle colture – dice –. Siamo in attesa della certificazione bio. Il nostro obiettivo è quello di coltivare verdura di qualità e aumentare la consapevolezza del consumatore».
Per Stocco la decisione di farsi imprenditrice è maturata dopo vari anni di lavoro dipendente. «In seguito alla seconda gravidanza sono rimasta senza lavoro – racconta a Gli Stati Generali –. Trovavo lavoretti da pochi mesi ma sentivo che non era quella la mia strada. E siccome sono sempre stata assai attratta dalla natura, ho cominciato ad approfondire temi come alimentazione naturale, orto sinergico, permacultura… e più studiavo, più mi rendevo conto che mi rispecchiavo in quello che facevo».
È un trend che riguarda tutta una generazione. Secondo i dati pubblicati da Unioncamere il mese scorso, quasi un’azienda su 3 tra quelle fondate nei primi sei mesi di quest’anno è guidata da under 35. Complessivamente, le aziende “giovani” sono aumentate del 6% rispetto al secondo semestre del 2016.
Del resto, di fronte a un mercato del lavoro scarsamente meritocratico e trasparente, non stupisce che in molti (uomini e donne) decidano di fare impresa. «Sostanzialmente è un fenomeno positivo, anche se bisogna sottolineare che nasce da una circostanza negativa – nota Galli –, e cioè dalle grandi difficoltà dei giovani per trovare un lavoro da dipendente a buone condizioni. In passato c’era una relativa sicurezza e fiducia che il mercato del lavoro, seppur con qualche difficoltà, avrebbe potuto assorbire le nuove generazioni. Questa ragionevole certezza ora è venuta meno, sostituita piuttosto da un’alta probabilità, per i giovani, di inoccupazione o occupazione di scarsissima qualità, saltuaria e precaria».
Non che la vita da imprenditori e imprenditrici sia più facile. «Al-va è una bella sfida, e come tale ha i suoi alti e bassi – dice Manassero –. La mia azienda, come la maggior parte delle imprese femminili credo, vuole trasmettere valori quali la pazienza, l’organizzazione, l’importanza dei legami e del cuore, cercando di proiettarli in un’ottica industriale. Mi piacerebbe che l’Italia superasse gli stereotipi». Lombardi la pensa come lei: «il contributo femminile in una startup è fondamentale – dice –. Le donne hanno spesso capacità comunicative e di visione d’insieme più spiccate, e la loro empatia è un punto di forza per comprendere le esigenze del cliente, andando oltre le prime impressioni».
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