Costume
Abbiamo davvero cresciuto la peggio gioventù?
La peggio gioventù verrebbe da chiamarla stando alle cronache quotidiane dei giornali. Stupri, stalking, violenza, omicidi: i giovani di oggi non sembrano essere in grado di governare le loro pulsioni, di gestire anche la più lieve frustrazione, di relazionarsi con chi li circonda al di fuori della dinamica del soddisfacimento immediato di un bisogno. Gli stupri di Palermo e Caivano sono la punta dell’iceberg di una profonda crisi sociale che interessa giovani (e meno giovani, se pensiamo all’omicidio Tramontano, rispetto al quale ancora in questi giorni emergono alle cronache inquietanti risvolti) privi di consapevolezza rispetto alle conseguenze e alla gravità delle proprie azioni. Amorali, ovvero privi di qualsiasi moralità, non compiono atti di contestazione, perché hanno solo, nei casi migliori, una marginale consapevolezza del male. La differenza con gl’immorali è sottile, ma centrale, e non può che interrogarci in modo forte. Chi compie infatti un atto immorale può arrivare a rivendicarlo in modo eversivo rispetto alla morale comune “Ho ucciso per vendetta” o a pentirsene una volta messo di fronte alle proprie responsabilità “Non so cosa mi sia successo, ho reagito per rabbia”.
Se già di fronte a episodi di violenza scatenata dall’impossibilità di contenimento di un proprio stato emotivo la domanda sui percorsi educativi che hanno portato una persona a trasformarsi in carnefice sono urgenti, a maggior ragione non possiamo fermarci tutti – senza liquidare i fatti con un giustizialismo mediatico da forca – di fronte alla completa assenza di coscienza che traspare dai racconti emersi da chat e social riportate dalla stampa in questi giorni.
Il più giovane stupratore di Palermo, ad esempio, non solo ha mostrato assenza di rimorso, totale inconsapevolezza della gravità del suo gesto e – in aggiunta, ma non da meno – della sua posizione legale, ma ha rivendicato con un certo orgoglio il suo ruolo di protagonista, arrivando addirittura a lamentarsi per gli attacchi subiti sul web. Come se stuprare una ragazza e, in stato di fermo, continuare a pubblicare contenuti on line (fra l’altro potenzialmente autolesivi anche in ottica di tutela personale in caso di processo) fosse normale.
Viviamo in un mondo patriarcale, ancora profondamente e intrinsecamente viziato dalla disparità e dalla violenza, dall’abuso nei rapporti. La donna, ancora e sempre, si deve giustificare, perché “se l’è cercata”, le famiglie devono preoccuparsi di educare le figlie alla modestia e non tanto i figli al rispetto, perché – si sa – l’uomo è uomo. Tutto questo però già esisteva prima dei social. Il matrimonio riparatore, abolito in Italia solo nel 1980, grazie alla coraggiosa lotta di donne come Franca Viola, sottendeva allo stesso discorso patriarcale e violento, ma imputava, ancora, allo stupratore, una responsabilità (per quanto deviata e, appunto, riparatoria in ottica maschilista), che era ben chiara in termini legali e anche umani. “L’hai toccata e la sposi”, con le tante storie finite nel sangue per vendicare l’onore macchiato o nella sofferenza fra le mura domestiche. Ora siamo oltre. In una società che legalmente è progredita ci ritroviamo a fare i conti con l’inadeguatezza della risposta emotiva, che interessa in larga parte le generazioni nate dagli anni Ottanta in poi, ai temi di carattere morale. E qui si interseca nel ragionamento un altro fatto di cronaca, meno rilevante probabilmente, ma utile per la riflessione. Si sono infatti concluse le indagini avviate a seguito di una denuncia di Enpa rispetto alla morte, avvenuta in seguito a vere e proprie sevizie, di un coniglio in occasione di una festa con adulti e bambini. In quella occasione ai bambini sarebbe stato proposto – per intrattenimento – di giocare con alcuni conigli nani da compagnia. Il gioco si sarebbe trasformato in poco in un vero e proprio maltrattamento ai danni di uno dei conigli, percosso e ucciso dai bambini, alla presenza di genitori indifferenti. A fronte di un comportamento evidentemente sbagliato i bambini non sono stati corretti e frenati, non è stata data loro una spiegazione rispetto ai limiti, non sono stati messi davanti alla gravità delle loro azioni nemmeno in seguito alla morte dell’animale. Se a un bambino non vengono insegnati rispetto e cura, senso del limite, se non vengono corretti comportamenti che – in alcuni casi – il bambino potrebbe non percepire come sbagliati, ma di cui non faticherebbe a comprendere la gravità se correttamente presentata, ecco allora che si genera il problema. Il bambino deve giocare e quindi poco importa delle conseguenze: in fondo era un coniglio. Il passo dal coniglio alla fidanzata è lungo, ma anche estremamente breve se, nello spazio emotivo a disposizione nel periodo della crescita e maturazione, non avviene qualcosa che possa portare il bambino a uscire dal suo egocentrismo e relazionarsi in modo sano con il mondo. Non si può pensare, come società, che le cose procedano in modo miracoloso. II bambino che uccide il coniglio non necessariamente si trasformerà in un adulto violento, ma solo se un adulto – capace di farsi carico del ruolo educativo che ha scelto liberamente (che sia genitore o professionista dell’educazione) – saprà trasmettergli il senso di responsabilità per i suoi sentimenti, i suoi istinti e le sue azioni. L’eterna giustificazione autoassolutoria di chi abdica a questo compito, accusando semplicemente la società o – peggio – gli stessi giovani di aver perso la morale è alla base della deriva egoistica e, purtroppo, spesso violenta a cui assistiamo.
Non sono solo i social ad amplificare: l’idea dell’infinito possibile e del diritto alla propria affermazione a prescindere dall’impatto che può avere su chi ci circonda è storia antica e figlia della cultura della crescita costante dei ruggenti anni Novanta. Se vuoi puoi e nessuno può fermarti.
Così l’incapacità non solo di autoregolarsi, così evidente nel caso dello stupro di Palermo come in tutti gli altri casi di violenza sessuale, diventa un’accusa ancora più pesante nei confronti di una mancata educazione emotiva e relazionale nel momento in cui, messi di fronte alle loro responsabilità, gli autori non tentano nemmeno di inscenare a beneficio social uno spettacolo “riparatore”, ma ostentano indifferenza e sicurezza del proprio status. Posso fare tutto ciò che credo, perché ne ho il potere e non rendo conto a nessuno: questa è la libertà che mi hanno insegnato. Dalla libertà di giocare con un coniglio fino alla sua morte, allo stuprare in gruppo una ragazza il passo non è più così lungo, perché la libertà senza radici è una prigione emotiva, in cui le pulsioni e l’assenza di capacità di gestire la frustrazione sono carcerieri esigenti. Senza lasciare in eredità alle future generazioni una “legge morale dentro di sé”, competente e autonoma, negheremo anche il cielo stellato. A quel punto sarà – e già è – un problema di tutti.
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