Costume
60 anni per strada: le contraddizioni della legge Merlin
Parma, città benestante del nord di medie dimensioni. In una via della prima periferia, in una serata qualsiasi, è possibile incontrare almeno 3 o 4 prostitute. Fanno parte del “panorama urbano” e il dibattito legato alla loro presenza si risolve in termini di sicurezza e decoro. Di loro e delle colleghe che esercitano nei tanti locali che, con differente denonminazione (sala massaggio, spazio relax, centro benessere, night club, club privato…) animano le nostre città, si sa poco. A volte scelgono questa strada consapevolmente, nella maggior parte dei casi si ritrovano su un marciapiede perché non hanno alternative. La loro non è una professione, ma una schiavitù. Non dispongono di nessuna libertà, di nessun guadagno, di nessuno spazio per potersi autodeterminare. Non possono “licenziarsi”, né rifiutarsi di compiere una certa mansione.
Se uscendo la sera per strada vedessimo un uomo legato ad una catena che pulisce un’aiuola ci scandalizzeremmo. Lo stesso se vedessimo un commerciante consegnare tutto il suo guadagno ad uno sconosciuto in nome del mantenimento della sua incolumità: sì, ricorda il pizzo, e di questo ogni giorno dovremmo tutti scandalizzarci.
Eppure ciò che reca scandalo sulle nostre strade non è la schiavitù della donna, ma il suo corpo esposto, lo squallore che ci trasmette la consapevolezza che questa esposizione non ha nulla di volontario. Ci scandalizziamo per gli sguardi dei nostri figli e i commenti di chi, passando nel nostro quartiere, pensa che viviamo in una zona degradata. Del destino di questi corpi, una volta sottratti alla nostra vista da un controllo, non ci curiamo. Facciamo un passo indietro.
20 febbraio 1958, in Italia, viene approvata la legge contro la regolamentazione della prostituzione e per l’introduzione dei reati di sfruttamento, induzione e favoreggiamento della prostituzione, meglio nota come legge Merlin, dal nome della prima firmataria, Lina, senatrice del PSI. Quasi dieci anni sono trascorsi dalla presentazione della prima versione della proposta di legge, che mirava a cancellare le case chiuse autorizzate (e regolarmente tassate) dallo Stato e il dibattito che ha seguito tutto l’iter della legge in parlamento è stato acesissimo. Forse perché al tempo si stimava fossero aperti in Italia oltre 700 bordelli, con più di 3000 donne regolarmente registrate come prostitute e quindi il problema dell’opinione e del peso decisionale, anche in termini politici, dell’ “utenza” di queste strutture era evidente. Fra le voci illustri che si schierano contro la proposta di legge ricordiamo Benedetto Croce, Indro Montanelli, ma anche Pietro Nenni, che – pur non ponendosi in modo netto sul fronte dei contrari – solleva molte obiezioni rispetto al provvedimento. La legge viene comunque approvata con il favore del voto socialista, comunista, repubblicano e democristiano e la contrarietà di missini, monarchici, radicali e liberali.
La norma, che nega la legittimazione statale alla prostituzione, non nega però la possibilità, per donne e uomini liberi, di farvi ricorso per “scelta individuale”, sulla base dell’articolo 13 della costituzione. Un bel pasticcio, sostiene da subito qualcuno, perché la conseguenza diretta di questa legge – fatta la legge trovato l’inganno – è il proliferare di situazioni “alternative” per poter comunque soddisfare la richiesta, immutata, da parte dei clienti.
E non sempre, inutile a dirsi, con la consapevole e libera scelta da parte delle donne coinvolte. Coloro che infatti, per vivere, avevano esercitato il mestiere di prostituta fino al 1958, si sono ritrovate – sulla carta – letteralmente in strada. Questo nonostante la trasformazione di alcune di questi bordelli in enti di accoglienza e dei percorsi di supporto previsti negli anni successivi. Dal lupanare alla strada o al locale privato, noto alla comunità, ma nascosto e non normato da parte dello Stato, le prostitute hanno continuato ad esercitare la loro professione fino ad oggi.
Non c’è di che stupirsi, si tratta di mercato: dove esiste una richiesta nasce un’offerta. Legale o illegale che sia. Se non si agisce sulla domanda si troverà sempre qualcuno disposto a proporre una nuova offerta.
Il dibattito politico che, nei decenni successivi l’approvazione della Merlin, ha interessato il paese, si è spesso soffermato sull’ambiguità di fondo della legge: vietato normare la prostituzione, vietato impedirla quando frutto di libera scelta.
Ma in che modo si può parlare di libera scelta nel momento in cui non si conoscono i soggetti in causa? In che modo lo Stato, che comunque dev’essere garante sì delle libertà individuali, ma anche del rispetto di una norma che impedisce lo sfruttamento di questi stessi individui, può operare una distinzione? La confusione è ed è stata tanta, al punto che spesso sono state le sentenze a dare una “norma” di riferimento a cui attenersi in casi specifici. Il tema generale però è rimasto, anche a causa della tendenza, in parte tutta nostrana, a considerare la questione da un punto di vista etico/morale.
È giusto accettare la prostituzione? O meglio: è lecito considerare la prostituzione come un fenomeno sociale?
Gli schieramenti si dividono in molti casi fra moralizzatori (la mercificazione del corpo è sbagliata e va condannata a prescindere), rassegnati (la prostiutuzione è sempre esistita ed esisterà sempre, tanto vale non porsi neppure la questione), sostenitori (è giusto che gli uomini diano libero spazio alle loro pulsioni anche se si tratta di sesso a pagamento). In pochi si pongono, in modo laico, dalla parte della donna, sul cui corpo – ricordiamo – si parla molto, si agisce spesso, si ascolta di rado.
Gli stessi movimenti femministi non hanno una posizione univoca sulla questione: da chi sostiene che qualsiasi mercificazione del corpo sia degradante e segno di un asservimento del genere femminile ad un’ottica patriarcale (anche nel caso in cui sia la donna, liberamente, a scegliere la strada della prostituzione), a chi ritiene che si debba fare un distinguo fra le donne oggetto di piacere e le donne soggetto, ovvero coloro che per scelta consapevole decidono di vendere una prestazione. A complicare il quadro sono intervenute poi le recenti riflessioni sul mestiere di love giver, riconosciuto e normato già in diversi paesi. Ancora una volta però ogni tipo di discussione viene assorbita da domande di carattere etico, dimenticando che dovere di uno Stato è quello di normare un fenomeno nel rispetto della libertà individuale, ma anche nella tutela di tutte le parti chiamate in causa.
Quindi? Quindi la legge Merlin ha – forse – segnato il suo tempo. Questo non vuol dire che si tratti di una legge superata: pensare di tornare indietro al “pre 1958” sarebbe anacronistico e, a tratti, ridicolo. Tuttavia ignorare l’esistenza della prostituta come soggetto attivo della nostra società significa mettere la testa sotto la sabbia. Questo perché stiamo parlando di persone e non di rifiuti (analogia che scatta nel momento in cui la prostituta viene costantemente accostata al mancato decoro urbano) e di persone che hanno il diritto di essere difese – nel caso in cui siano costrette ad esercitare – o tutelate, nel caso in cui agiscano per libera scelta. Ma l’approccio “etico” al tema riduce, ancora una volta, il corpo femminile ad oggetto e come un oggetto può essere tranquillamente acquistato o accantonato senza troppi scrupoli di coscienza. Quella che in molti considerano salva grazie al semplice appello ad una norma, forse per non aprire riflessioni che ci porterebbero molto lontano dagli ormai esausti temi del decoro e della decenza.
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