Geopolitica
Turchia, le elezioni scontate con i tanti riflessi: dall’Europa alla Siria
L’esito delle elezioni è scontato, con la vittoria dei conservatori e islamisti moderati dell’Akp (Partito per la Giustizia e lo Sviluppo) del presidente Recep Tayyip Erdoğan. Eppure, nonostante l’esito prevedibile, la portata del voto è molto importante, non solo per Turchia. Gli elettori, domenica 7 giugno, dovranno rinnovare i 550 componenti del Parlamento turco, individuando una ‘nuova’ maggioranza. Che tanto nuova non sarà, visti i sondaggi, ma che avrà sicure ripercussioni su vari scenari internazionali. L’ex ministro degli Esteri e attuale premier Ahmet Davutoğlu, salvo clamorose sorprese, conserverà i numeri per governare e proseguire la sua azione politica nel solco degli anni di Erdogan con un mix di crescita economica di tipo liberale ma con un approccio molto religioso nella visione culturale e quindi della società.
Come accennato, il voto del 7 giugno non è solo una ‘cosa turca’: il ruolo di Ankara nello scacchiere internazionale è sempre più importante, quanto di difficile interpretazione. Il sostanziale allontanamento dall’Europa è un segnale preoccupante nello scacchiere geopolitico, e lo è ancora di più con l’esplosione dei conflitti in Medio oriente. La Turchia è un attore fondamentale per cercare di favorire la fine della guerra civile in Siria, avendo finora giocato in maniera abbastanza ambigua rispetto all’islamismo, ritenendo il regime di Assad e la minoranza curda come i veri nemici; molto più dell’Isis e delle altre fazioni islamiste (peraltro alcune delle quali sono sostenute in maniera ufficiosa dai turchi insieme al Qatar). In un quadro sempre più delicato, sarebbe fondamentale recuperare Ankara come interlocutore più affidabile rispetto all’ultima fase dell’era Erdogan. Per questo domenica lo sguardo volerà nelle urne turche.
Tornando alle elezioni in senso stresso, i rilevamenti indicano il consenso dell’Akp sopra il 40% e un vantaggio nettamente superiore al 10% sui repubblicani (Chp) del partito kemalista che si ispira ai valori del padre fondatore della Repubblica turca Mustafa Kemal Ataturk, costretto all’opposizione dal 2002 dopo la prima vittoria di Erdogan. La leadership carismatica dell’attuale presidente ha portato il partito conservatore al 49,8% del 2011. Tuttavia, nella tornata elettorale del 7 giugno potrebbe verificarsi un arretramento di consenso, con la conseguente perdita di qualche seggio parlamentare. Per questo motivo la vittoria rischia di assomigliare a una sconfitta.
Il vero obiettivo del Partito per la Giustizia e lo Sviluppo è quello di controllare i due terzi del Parlamento (367 seggi) per modificare la Costituzione e fondare una Repubblica presidenziale senza affrontare il referendum: in un sistema elettorale proporzionale, sebbene con un’elevata soglia di sbarramento (10% su scala nazionale), si tratta di un compito non proprio agevole. In alternativa c’è la possibilità di conquistare 330 seggi, approvare la riforma e sfidare gli avversari andando alla consultazione referendaria. In un sistema presidenziale Erdogan avrebbe un maggiore margine d’azione rispetto a oggi, eliminando il peso di dover ‘manovrare’ un primo ministro, seppure fedelissimo, come Davutoğlu.
Recep Tayyip Erdogan, insomma, sogna per sé un ruolo di neo-padre fondatore che potrebbe imprimere alla società un’ulteriore svolta conservatrice in direzione islamica. Spesso è stato criticato per i suoi metodi autoritari, come testimoniano le censure a Twitter, ancora di più quella ai giornalisti ‘scomodi’. E non sembra pentito di averlo fatto. Tuttavia, la Turchia sta manifestando da tempo il proprio dissenso: le proteste di Piazza Taksim sono state l’esempio principale, ma adesso il malcontento potrebbe mostrarsi direttamente nelle urne.
Un fatto che provocherebbe una forte preoccupazione nelle fila dell’Akp: i cortei possono essere repressi, e con il tempo anche dimenticati (almeno dall’opinione pubblica internazionale), mentre la diminuzione dei voti ha un impatto diretto sulla gestione del potere. Soprattutto perché qualcuno paventa (esagerando) uno scenario impensabile fino all’agosto 2014, quando Erdogan è stato eletto presidente: il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo senza 276 che permettono la maggioranza e costringendolo a un’alleanza.
Nello scenario elettorale vanno considerati gli altri partiti: oltre ai kemalisti, ci sono i nazionalisti del Mhp, i “Lupi Grigi”, che secondo i sondaggi non dovrebbero avere problemi a superare la soglia del 10%, superando anche il 15%. Le loro politiche sono di ultradestra, ma su una sponda laica e quindi lontana dall’ideologia di base dell’Akp islamico di Erdogan. Non a caso sono uniti nell’opposizione con i repubblicani del Chp.
Ma il selettivo sistema elettorale turco, paradossalmente, potrebbe essere deciso dalla quarta forza politica del Paese, l’Hdp, che raccoglie le istanze dei curdi, con le rivendicazioni di indipendenza, e allo stesso tempo coagula il consenso delle minoranze lgbt, presentandosi come un partito che riesce a mettere insieme le posizioni di una sinistra radicale. Una sorta di cartello ultra progressista che, con il raggiungimento della soglia del 10%, otterrebbe almeno 50 seggi, sottraendoli dal totale. E quindi agli altri partiti, compreso l’Akp che potrebbe perdere numeri preziosi in Parlamento.
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