Questione islamica

Terrorismo: la distrazione degli USA, il panico dell’Europa

27 Giugno 2015

Un attacco spietato, che ha colpito “tre continenti”, come hanno evidenziato i media internazionali, a cominciare dalla Cnn. La Tunisia, con la strage sulla spiaggia di Sousse, e il Kuwait, con l’attentato in una moschea sciita: entrambi gli attacchi sono stati rivendicati dall’Isis. Ma anche la Francia ha vissuto l’orrore di una decapitazione, in una fabbrica a Isère, tra Grenoble e Lione: la matrice è quella del jihadismo, sebbene non sia chiara se ci sia una specifica sigla alle spalle.

Il giorno dopo il violento ritorno del terrorismo islamico c’è una sorpresa: l’orrore islamista è un po’ in secondo piano sulla grande stampa statunitense. Certo, la notizia è presente sui siti di informazione, ma in ordine di importanza risulta seconda alla sentenza della Corte Suprema sui matrimoni gay.

In Europa e nel mondo arabo, invece, gli analisti si pongono una domanda molto complessa: come è possibile affrontare questa sfida globale? Ecco alcune risposte, sebbene sia difficile trovare una soluzione unica. Jonathan Freedland sul Guardian sottolinea un aspetto: non si può parlare di “guerra contro il male”, perché il “male è dentro di noi”.

I macellai dello Stato islamico stanno seguendo una tattica militare antica, già praticata da Gengis Khan e Attila: spaventare il nemico. Isis ha ucciso quegli uomini per farci tremare. E funziona anche. I turisti abbandoneranno Sousse, almeno per un po’. Ma mentre questi crimini seminano paura, alimentano anche la repulsione. E questa repulsione è condivisa. Ho parlato con Osama Hasan, uno studioso islamico e conoscitore del jihadismo. Mi ha manifestato il suo disgusto per le crudeltà commesse in questa settimana, notando come siano ‘aliene’ dalla Scrittura islamica che vieta, ad esempio, la profanazione di un cadavere. Mi ha detto che è in corso una battaglia per la civiltà, che dovrebbe unire le grandi società e le religioni del mondo – Cristianesimo, Islam, Induismo, Ebraismo – contro questo singolo, piccolo culto della morte. Sarebbe una sciocchezza parlare di una tale lotta come una guerra contro il male. Una guerra del genere non potrebbe mai essere vinta. Il male è dentro di noi ed è, a quanto pare, perenne.

L’analisi di Georges Malbrunot su Le Figaro è più legata alla guerra che l’Isis sta conducendo in Siria e in Iraq, ravvisando una sorta di avvicinamento alle logiche terroristiche di Al Qaeda: colpire con attentati.

L’obiettivo è di dimenticare le sconfitte sul campo di battaglia, in particolare quelle contro i combattenti curdi siriani, (perciò) lo Stato islamico si è recentemente focalizzato su un “jihad del terrore” più ‘pubblicizzato’. Con un doppio messaggio: instillare la paura tra gli iracheni e siriani che esitano a vivere sotto il dominio di Daech (altro nome per chiamare l’Isis, ndr). E mostrare che la violenza estrema è un esempio che dovrebbe ispirare tutti i “jihadisti in sonno” come quello che ha decapitato un uomo d’affari a Isere.

Dunque, secondo Malbrunot c’è un “disperato tentativo di non scomparire” da parte dell’Isis. E per questo si ispira al manuale del terrorista perfetto scritto dal progenitore dell’organizzazione, al-Qaeda in Iraq, e pubblicato nel 2004. “Una fonte di ispirazione per tutti gli apprendisti jihadisti di tutto il mondo”, spiega l’analista de Le Figaro.

Domenico Quirico, su La Stampa, usa parole dure contro l’Occidente, che sembra recalcitrante all’idea di affrontare una battaglia per la difesa dei propri valori di fronte alla minaccia di una sottomissione su base religiosa. Il giornalista, a lungo ostaggio dei jihadisti in Siria, evidenzia che la forza c’è, ma manca la volontà di azione.

Nessuno credeva a quello che è accaduto. E sembra che sia accaduto per caso, per un errore di calcolo. Tutti giocano una parte; guerrieri con l’arma sempre al piede, e pacieri, che scommettono sui moderati, i buoni, i ragionanti. Bassezze parolaie diventano eroismi. Facciamo il conto dei caduti, come collezionisti maniaci. E alla fine ci troviamo invischiati in qualcosa di terribilmente serio. Il problema non è la forza, che ci resta ma inerte. È che abbiamo perduto di fronte a popoli assetati di profezie anche sanguinarie la facoltà di dire cose sublimi, quasi ispirate, gravide di significato. Una guerra, contro di noi, è cominciata, torbida, ma ci manca la convinzione di combatterla, viviamo già con il sentimento della sua inutilità.

Il Telegraph ha dedicato un editoriale al venerdì nero del terrorismo, parlando della “chiara necessità di unità morale degli europei contro la questione strategica più urgente della nostra epoca: la sfida dell’islamismo radicale”.

Ieri abbiamo assistito a tre attacchi terribili. In Kuwait, una bomba ha ucciso i fedeli in una moschea; in Francia, un uomo è stato decapitato in una fabbrica; in Tunisia, i turisti sono stati uccisi mentre prendevano il sole in spiaggia. I cittadini europei sono stati presumibilmente presi di mira per inviare un messaggio ai loro governi. Vi è in questo un eco dello spirito nazista – un’alleanza orrenda di violenza, fanatismo e razzismo.

Date queste premesse, quindi, il quotidiano britannico lancia l’invito: “È tempo che le persone rette tengano una posizione netta contro questa forza disumana”. L’editoriale de Le Monde risente dello shock per quanto avvenuto a Isère. Il messaggio principale è chiaro:

Al di là della necessaria cooperazione necessaria nell’antiterrorismo, serve una riaffermazione dei nostri valori democratici unanimi e permanenti nelle nostre società e nelle nostri classi politiche, perché questa rimane la nostra migliore difesa.

Ma il quotidiano francese propone una disamina anche degli obiettivi, sicuramente non celati, del terrorismo.

Il primo obiettivo di questi attacchi multipli è chiaro: diffondere il terrore per colpire gli spiriti con un effetto di massa, sfruttando in particolare le reti sociali. Per non lasciare mai l’immaginazione a riposo, […] spingendo sempre oltre i limiti il macabro spettacolo.

The Independent, nell’articolo di Alistair Drawber, sottolinea un aspetto: “L’illusione di un futuro stabile per la Tunisia è già finito”, mettendo in evidenza come l’unico Paese che è approdato alla democrazia dopo la Primavera araba sia in realtà alle prese con forti difficoltà.

In questa rassegna di analisi formulate da esperti, regna un alone di pessimismo. Sul sito di al Arabiya Faisal J. Abbas propone un approccio ancora più fatalista, incentrato sulla quasi impossibilità a risolvere la situazione a causa del sostanziale disinteresse generale, fatta eccezione per i momenti di shock post attentato.

Ecco cosa succederà: i leader dei paesi colpiti visiteranno i feriti, i leader mondiali e le parti interessate condanneranno, la stampa ne parlerà per qualche giorno. Poi, la storia morirà e il terrorismo sarà dimenticato – fino a quando non colpirà ancora. […] Non dimentichiamo che dopo ognuno di questi attacchi, l’odio contro i musulmani aumenta e le comunità musulmane finiscono per essere accettate più difficilmente nel trovare un lavoro e integrarsi.

Il ragionamento si chiude con un pizzico di ottimismo: “Si dice che la notte è più buia poco prima dell’alba – non credo che la nostra notte possa diventare più buia!”.

El Pais, attraverso l’analista di Francisco Rubio Damiàn, parla della strategia dell’Isis: colpire le persone comuni; “la strategia del medio” è infatti il titolo del suo articolo.

Attacchi diretti contro i civili sono presenti in quasi tutte le guerre, che si sono trasformate in scenari ideali per gli attentati terroristici indiscriminati e tentativi di pulizia etnica. Tradizionalmente, queste azioni sono state giustificate dal contributo della popolazione per lo sforzo bellico. […] Tuttavia, oggi l’aggressore cerca condizionare principalmente l’opinione dei cittadini per far esercitare una pressione sui loro leader politici. In altre parole, nei conflitti armati di oggi continua a essere mirata più per la sua influenza politica. […] Lo Stato islamico persegue una strategia di uccisione dei civili, attaccando sistematicamente la popolazione non combattente per raggiungere obiettivi politici. Si tratta, quindi, di una decisione politica che non ha nulla a che fare con i cosiddetti attacchi non coordinati e casuali. In questo caso, l’uccisione non è un impulso irrazionale.

Anche un articolo di Atlantic, firmato da Kathy Gilsinan, si sofferma sulla strategia attuata dal jihad globale. E annota un aspetto: solo in Kuwait c’è stata un’immediata rivendicazione, sollevando qualche perplessità sul reale coordinamento dei tre attacchi avvenuti nel venerdì nero del terrorismo internazionale.

La teoria militare della Chiamata alla Resistenza nasce sul ricorso a due aspetti del jihad: il funzionamento del terrore jihadista e il lavoro di piccole cellule segrete che sono chiamate a operare in maniera isolata tra loro.

Torna così il modello teorizzato da al Zarqawi – il leader di quella organizzazione che poi sarebbe diventata l’Isis – ossia la nascita di “piccoli gruppi spontanei che svolgono i singoli atti di terrorismo in Europa” mentre prosegue “una lotta aperta per il territorio in Iraq”. Un mix del modello di attentati di Al Qaeda, caro a Bin Laden, e quello del controllo del territorio, preferito dal Califfo Abu Bakr al Baghdadi.

E alla fine di tutto resta un punto di domanda: esiste in Occidente la capacità comune di affrontare una sfida tanto complessa?

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