
Questione islamica
“Solo l’occidente conosce la storia”: così una bugia dozzinale è diventata direttiva ministeriale
Uno dei miei più venerati Maestri, il gesuita Padre Roberto Busa, pioniere dell’informatica linguistica in tempi non sospetti (c’erano ancora le schede perforate…), conosciuto e stimato all’estero più che in Italia – tanto per cambiare – amava esprimersi con aforismi. Uno di quelli che mi son tornati alla mente in questi giorni di confusione e sbandamento è semplicemente: “C’è una bella differenza fra ‘non sapere’ e ‘sapere che non’”. Avendo prodotto le concordanze dei circa 10 milioni di parole che compongono le opere di san Tommaso, voleva banalmente far osservare che per poter affermare che un termine o un concetto facesse parte del lessico dell’Aquinate bastava trovarne una singola occorrenza, ma per pretendere che tale termine o concetto mai vi apparisse occorreva invece averne letto l’intera opera senza nulla omettere. Una delle più note firme del Corriere della Sera, Ernesto Galli della Loggia, sta da qualche tempo sostenendo una posizione che è stata fatta propria anche nelle ultime direttive ministeriali: “solo l’Occidente conosce la storia”. E’ appena tornato sul tema stracciandosi le vesti e come una maestrina dalla penna rossa, facendoci benignamente notare che non intendeva dire che “solo l’Occidente ha una storia”, ma è l’unico che “sa” di averla. Conosco poco delle sue competenze, ma non ritengo sia necessario consultarne l’opera omnia per ritrovare in queste sue affermazioni la prova provata del suddetto aforisma. Avendo sulle spalle quasi 50 anni di studi relativi alla civiltà arabo-islamica non ho difficoltà a riconoscere che l’annalistica, non solo per questa cultura, ha spesso avuto la meglio sulla storiografia. Lunghe file di nomi, di date, di battaglie e via discorrendo hanno fatto colare ovunque fiumi se non oceani di inchiostro.
Anche in queste, tuttavia, una visione delle vicende umane e divine che spesso prendevano le mosse dall’origine del mondo, qualcosina hanno preteso di collocare in uno scorrere non casuale o fatalistico di quanto accadeva, erigendo veri e propri monumenti di miti eziologici da cui in buona sostanza dipende tutto il resto. Non unicamente le radici giudaico-cristiane (a mio parere erroneamente taciute nelle carte fondative dell’Unione Europea), ma pure quelle greco-latine (benché pagane), quelle barbariche (quali le celtiche, tanto care ai probabili simpatizzanti dell’Autore), ma anche quelle Nordafricane e Mediorientali, Persia compresa, e più remote ancora come le indiane (cui dobbiamo l’origine degli idiomi appunto indo-europei, ma pure i numeri arabi, cosiddetti in quanto da questi ultimi li abbiamo ricevuti) o sino-giapponesi. Eppure, senza far troppe ‘storie’, saremmo gli unici ad aver consapevolezza di averne avuta una con la S maiuscola. La convinzione è talmente assiomatica da lanciare una sfida: “fuori i nomi (e magari anche le date!)”. Ebbene, il diplomatico Ibn Fadlàn (m. 960, epoca a cui risalgono i primi documenti d’archivio che potremmo definire in proto-italiano) fu inviato dal Califfo di Baghdad al re dei Bulgari, ma finì anche in Scandinavia e ci offre una descrizione fedele degli usi e costumi delle popolazioni locali. Non si può dire che li ammirasse in tutto, appartenendo a un’epoca che per l’Islam rappresentò il Rinascimento, seguito dalla decadenza del post invasioni mongoliche. Raffinato umanista, constatò il carattere brutale di genti che vivevano in un clima tanto rigido, la loro inclinazione a bere eccessivamente, stupendosi che sulla nave data alle fiamme col cadavere del loro defunto re fosse stata collocata anche la sua concubina preferita ancora viva ma cortesemente anestetizzata da una buona dose di alcolici. En passant cito solo al-Biruni (m. 1048, quando Amalfi iniziò a programmare l’istituzione dei Cavalieri di Malta) il quale paragonò vari sistemi calendariali (anche manichei e buddhisti, non solo ebraici e cristiani) per illustrare la concezione della storia di differenti popolazioni e lasciò la prima opera di vera e propria indologia, avendo accompagnato una fase della conquista islamica del sub-continente di cui imparò la lingua sanscrita senza liquidarne la fede in una sorta di politeismo paganeggiante che facilmente ancor oggi molti rimproverano agli hindu.
Del Marco Polo maghrebino Ibn Battuta (m. 1368, quando nella Cina della dinastia dei Ming si conoscevano la bussola, la polvere da sparo e la cartamoneta) basterà ricordare che, stabilitosi come giudice musulmano nelle Maldive, constatò che le donne locali – regina compresa – circolavano senza malizia in topless e riconobbe infine che le sue serve, le quali si buttavano degli stracci sul petto per non metterlo a disagio, non erano tuttavia eleganti, poiché il loro abbigliamento tradizionale non comportava capi adeguati allo scopo. Quando alla gigantesca figura di Ibn Khaldun (m. 1406, ben prima di quel Machiavelli cui è stato tanto spesso paragonato) sarà sufficiente rammentare una visione ciclica della storia, fortemente dipendente da fattori ambientali, socio-antropologici e religiosi. Potrei continuare, ma poco servirebbe a chi sembra abbagliato dai rapidi e profondi eventi che la modernità ha prodotto in Occidente. Sai che scoperta! Il senso critico applicato alle conoscenze, alle tecniche e alle arti – non senza fatica e subendo numerosi anatemi – ha effettivamente avuto un’accelerazione sorprendente e continua a prender velocità in quella che non a caso è stata definita ‘società liquida’, ovvero una mare talmente agitato da indurre più d’uno ad afferrarsi a qualsiasi cosa galleggi: Dio, Patria e Famiglia stanno tornando alla ribalta con scarsa consapevolezza di ciò che hanno significato fino a non troppo tempo fa, così come più anticamente la democrazia della polis greca o la res publica romana. Mal comune, mezzo gaudio potrà dire qualcuno, visto che il Trono del Pavone è stato rimpiazzato nel 1979 da una ‘rivoluzione’ che ha instaurato al suo posto una ‘repubblica’ islamica! Sarò ammalato di Socrate, ma riesco ad apprezzare unicamente chi, come punto di partenza, solido e permanente riferimento mantiene la coscienza del suo e altrui ‘non sapere’, prima di permettersi di ‘sapere che non’ rispetto non a qualcuno soltanto, ma addirittura a tutti gli altri che in fin dei conti hanno problemi assai simili e coi quali non vogliamo trovar maniera d’intenderci!
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