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SE LA GUERRA DEGLI ALTRI DIVENTA LA TUA: DONNE ITALIANE CHE SCELGONO IL JIHAD
Cosa spinge una giovane donna, una ragazzina, nata e cresciuta nella nebbiosa tranquillità di qualche ricca regione del Nord Italia a mollare jeans skinny e vasca in centro, preferendo loro niqab e slalom tra i morti delle città della Siria?
Ho 41 anni e a 18 non ero proprio un’invornita che non sapeva che nel mondo l’ingiustizia veniva rieletta ad ogni tornata elettorale. A 18 anni seguivo sui giornali le cronache della pulizia etnica di là dal mare in cui trascorrevo ogni estate le vacanze, avevo guardato, con la paura negli occhi, un abbronzatissimo Emilio Fede che annunciava lo scoppio della prima Guerra del Golfo e avevo iniziato a capire che ero una privilegiata. Avevo orrore di quello che accadeva a pochi chilometri da casa mia, mi informavo e ne discutevo, ma mai mi sarei sognata di coprirmi da capo a piedi, mollare Euripide sul banco del liceo e sostituirlo con un AK47.
Eppure oggi ragazzine che hanno su per giù l’età che avevo io quando Milosevic aveva pavimentato la ex Jugoslavia di cadaveri, mollano tutto e partono: il velo sulla testa, un mitragliatore tra le mani. L’ultima, a quanto pare, è una diciottenne di Treviso, figlia di un italiano e una tunisina, il cui padre ne ha denunciato la scomparsa, avanzando l’ipotesi che possa avere scelto di arruolarsi, come foreign fighter, tra le fila dell’Isis.
Esercitando, per quanto la natura mi consente, i miei poveri neuroni non sono riuscita ad immaginare cosa sia passato per la testa di questa ragazzina che ha atteso l’indipendenza decisionale che assicurano i 18 anni per prendere parte a una guerra che non la sfiorava nemmeno da vicino.
Le donne che combattono, che si armano per difendere la libertà del loro Paese, non sono certo una novità degli ultimi mesi, basterebbe ricordare la lotta di Giovanna d’Arco, celebrata martire cristiana, arsa viva dagli inglesi durante la Guerra dei 100 anni. La ragazza di Orléans, però, era francese e combatteva per la libertà della sua terra, non aveva sposato una causa lontana. Battagliava per casa sua.
E certo ai suoi tempi mica c’era Internet, e manco c’erano gli inviati di guerra che testimoniavano (ostaggi embedded di qualche esercito) gli orrori che riuscivano a intravedere.
Una scelta tanto drastica come quella della giovane di Treviso, o di Maria Giulia Sergio (ora Fatima) non può spiegarsi semplicemente con l’avvento dell’era della Rete e dei suoi internauti abitanti. Non si può pensare che le sole parole di qualche blogger, o qualche gruppo di invasati, riesca da solo a indurre due giovani donne a mollare tutto e partire per andare, con ogni probabilità, a farsi ammazzare.
Quello che di queste donne non sappiamo, perché nessuno ce lo dirà mai, è come vivevano in quelle città tranquille e produttive dalle quali sono scappate. Avevano amici, andavano a scuola, avevano un lavoro, leggevano libri? Credevano in qualcosa? Erano felici?
Leggendo tra le righe delle loro esistenze, come in quelle di ogni altro fanatico politico o religioso, io sento quella stessa orrenda puzza che si trova negli angoli remoti del mondo: quelli in cui si nascondono i disadattati i reietti… I perdenti di una società che ha fatto della vittoria il suo passaporto per l’integrazione.
Se non ce l’hai questo passaporto, se in qualche modo non sei riuscito a beccarti una medaglia da appuntarti al petto, finisci a vivere nell’ombra dei vicoli dell’ingiustizia. Tu e la tua rabbia, tu e la tua frustrazione, tu e il tuo computer, tu e la tua voglia di fare parte di qualcosa che dia un senso al tuo essere venuta al mondo. E se questo senso te lo danno degli invasati che certificano la malvagità di quella società che ti ha buttata fuori, che ti ha illusa sventagliandoti sotto il naso l’uguaglianza, ma che mai si è sognata di far sentire te uguale, tanto meglio.
Quelle due giovani donne che oggi marciano scavalcando cadaveri con i piedi calzati di sangue e di sabbia hanno trovato il loro bene in qualcosa che quelle come me, incluse in una società esclusiva, definiscono il male.
Che alla fine il male non si può leggere in maniera unilaterale: il male è questione di esclusione.
E finché questa società non imparerà ad illuminare ogni vicolo con la giustizia e il diritto quel male che si arma quotidianamente di combattere rimpolperà le sue fila di altre ragazzine e di altri ragazzini: un’orda di reietti decisissimi a diventare i nostri carnefici.
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