Geopolitica
Pratiche di libertà: le elezioni tunisine
Chi ricerca nei fatti l’influenza reale esercitata dalle leggi sulla sorte dell’umanità è esposto a grandi delusioni, perché non vi è niente di più difficile da valutare di un fatto.
Alexis de Tocqueville
“Signorina, la legalità di queste elezioni è l’unica garanzia per poter essere una vera democrazia!”. Così mi accoglie un membro dell’ISIE (L’instance Supérieure Indépendante pour les Elections) nel seggio di Rue de Marseille, via centrale della Ville Nouvelle di Tunisi, dove arrivo per fare l’osservatrice elettorale a tarda sera, dopo aver incrociato gli elettori di Rue de Russie, Jebel Ahmer, Halfaouine. Sono squarci di Tunisi differenti: rurali, urbane, salafite, intellettuali, donne in ciabatte e con i tacchi altissimi, motorini e auto di lusso, capelli con la messa in piega e veli fioriti, tute in acetato e completi blu, con le bandiere nazionali come mantello, con le bandierine, in file ordinate nelle scuole bianche e azzurre del centro come in quelle che lasciano intravvedere banlieue e baracche. Questa, per molti, sarà la vera vittoria della Tunisia, alla fine di queste settimane di voto (le elezioni legislative e il doppio turno presidenziale). La giornata di domenica è stata caratterizzata da una partecipazione più alta delle aspettative della vigilia (circa il 59,9% a ridosso delle chiusure dei seggi, salito al 61,8%, e poi lievitato ieri attorno al 70%) con un clima di inaspettata tranquillità. Le elezioni del 26 Ottobre, infatti, hanno rappresentato le prime elezioni legislative della storia della nuova Tunisia, ultima tappa del processo di transizione iniziato nel 2011, quando, a poche settimane dalla fuga di Ben Alì, i sit-in della Kasbah 2 avevano scelto di avviare un nuovo processo costituente nel paese. Nei caffè, nei bar, tra un tè e una birra Celtia, si vedono gli indici macchiati di chi ha votato e le dita intonse dei quasi sette milioni di cittadini che non hanno partecipato alla tornata elettorale.
I tre anni di questa transizione sono stati caratterizzati da umori mutevoli: da una parte l’entusiasmo per la possibilità di acquisire reali diritti esigibili, tra tutti la libertà di espressione, la libertà di stampa e la possibilità di manifestare il proprio pensiero e il proprio credo religioso nello spazio pubblico. Dall’altra, la forte domanda di diritti economico-sociali, alla base delle rivendicazioni, non è stata mai soddisfatta dalle prassi politiche. Quei diritti hanno rappresentato la spinta principale e, al contempo, la delusione più cocente di questi tre anni: solo lo stato sociale è in grado di garantire la karemah, la dignità che era stata insultata dall’arricchimento selvaggio di Ben Alì e i suoi parenti, e che aveva portato migliaia di tunisini a scendere in piazza tra il 2010 e il 2011. Quello stato sociale, promesso nella piazza della Kasbah, evocato sotto gli alberi dell’Avenue Bourguiba, così necessario a Tatauine, Medenine, Sidi Bouzid, Kasserine, a Thala come a Siliana, a Jendouba e a Regueb, non è stato realizzato in questi tre anni di processo di transizione. L’ultimo triennio ha anche rappresentato il ritorno in Tunisia degli omicidi politici. Le morti dei due politici del Jabha Chaabia (Front Populaire) Chokri Belaid (6 febbraio 2013) e Mohamed Brahmi (24 Luglio 2013) hanno cambiato le pratiche del governo e portato nei confini della Tunisia uno spettro temuto: il terrorismo. Le molte (e discusse) azioni compiute dalle BAT (Brigate Anti terrorismo) nel territorio montuoso dello Jebel Chaambi per prevenire e combattere attentati e attentatori hanno diffuso un clima di paura che sicuramente ha favorito il ritorno ad un partito modernista: Nidaa Tounes, vincitore delle elezioni.
In quasi due anni di viaggi in Tunisia, il mio sguardo si è lentamente spostato dalla ricerca della rivoluzione, e di ciò che significa in un immaginario europeo, all’ascolto dei cittadini tunisini, dei loro bisogni, della loro ricerca di tranquillità e il sogno di cambiamento che si è declinato secondo orientamenti che spesso confliggono con quell’impianto valoriale che noi attribuiamo ai rovesciamenti politici. Stavolta, ancora di più, ho scelto di non rispondere alla domanda: “io cosa avrei votato?” intellettualmente disonesta, ma di capire, invece, quali segmenti del paese hanno sostenuto le differenti forze in campo, o hanno scelto di astenersi. Un primo punto di osservazione è stato la fine delle campagne elettorali dei principali partiti presenti nell’arena tunisina venerdì 24 Ottobre. Il giro è iniziato a Malassine, banlieue popolare nella zona Ovest della città, dove Slim Riahi, leader dell’UPL ha chiuso la sua campagna. Poco più che quarantenne, arricchitosi tra Libia e Inghilterra, Riahi è stata la grande sorpresa elettorale. La sua campagna è stata incentrata tutta sulla sua ricchezza, presupposto fondamentale per eludere l’accusa di corruzione come politico, con l’argomento “non ce n’è bisogno”. Con la sua fortuna miliardaria Riahi non solo ha acquisito 3 canali televisivi, ma è il presidente del Club Africain, la più grande squadra di calcio del paese. Dalla discesa in campo del leader dell’UPL, la squadra ha sempre vinto. La festa elettorale è in una grande palestra: arrivano i ragazzini dei quartieri, tifosi e ultras, le famiglie, i gruppi, i bambini, accompagnati da pullman turistici. Lampade stroboscopiche e musica da discoteca ibizenca accolgono gli astanti, in un tripudio di palloncini rossi con il falco bianco, il simbolo (alquanto evocativo) dell’Unione Proletaire Libre. Poltroncine Frau, bouquet di rose e bottiglie di cristallo contraddistinguono il privée per i candidati e i giornalisti. Una conduttrice bionda e rifatta presenta ad uno ad uno i capolista, finché arriva lui, il candidato presidente, con folla che sgomita, spinge e piange. Parla con voce tremante, emozionato. Promette fabbriche nelle zone disagiate, la fine della deriva islamica. Riceve sul palco un gruppo di ragazzi affetti da disabilità, raccontando che coprirà personalmente le spese ospedaliere. Slim vende alla Tunisia uno dei sogni che il paese sta cercando, quello di una normalità fatta di potere d’acquisto, iphone, impianti stereo. Quella ricchezza consumistica che ridurrebbe la distanza tra le due sponde del mediterraneo, ma che tanto stride con la classica idea di rivoluzione.
Poco dopo, mi sposto in centro: ci sono due manifestazioni contigue, ma molto diverse per stile e composizione sociale. Al teatro Colisée c’è l’incontro del Front Populaire, partito che racchiude insieme varie anime: dal POCT (Parti des travailleurs) al Watad (Parti unifié des Patriotes democrates) fino alle componenti tunisine del Baath. Il teatro è colmo di tunisini e tunisine, poche donne velate, molti professionisti e professioniste. Si canta l’inno nazionale, si richiamano i martiri della rivoluzione, e i martiri politici. Si respira l’aria stantia e salottiera di una sinistra lontana dal popolo sul piano sostanziale, ma che propone forse l’unico progetto economico non liberista nella nuova Tunisia, chiedendo a gran voce la cancellazione del debito pubblico contratto da Ben Alì. Circa cinquecento metri più lontano, a ridosso della piazza 14 Janvier, simbolo della rivoluzione, si sta svolgendo la grande manifestazione di Ennhada, il partito dei fratelli musulmani tunisini. Ci sono migliaia di persone accalcate sotto il palco, in cima al cavalcavia, nelle viuzze parallele. Il grande partito dell’Islam moderato ha raccolto una folla trasversale, e nonostante le molte critiche mosse alla gestione del potere dopo la vittoria delle elezioni del 2011, continua a mantenere una vasta base di voto (spesso anche questa cooptata con pullman e piccoli premi in denaro). Il modello evocato è quello della Turchia di Erdogan, che si dice si sia ispirato al pensiero di Grannouchi (il presidente del partito) per la linea politica adottata sul Bosforo. Non potendo seguire tutto in contemporanea, non riesco a raggiungere in tempo la chiusura di Nidaa Tounes, il partito che ha vinto le elezioni. Nato nel 2012, a distanza di otto mesi dalle elezioni dell’assemblea costituente, il partito è guidato da Beji Caid Essebsi, 88enne appartenente al vecchio partito dousturiano di Habib Bourguiba, che ha attraversato tutta la storia politica della Tunisia indipendente: attivista durante le lotte per l’indipendenza dalla Francia, sotto la reggenza di Bourguiba ha ricoperto ruoli come Ministro degli interni ambasciatore tunisino in Francia e Ministro degli esteri. Negli anni di Ben Alì, è stato presidente della camera dei deputati e ambasciatore della Tunisia in Germania. Essebsi è l’uomo politico che piace all’Europa, che rappresenta per i tunisini un ritorno agli anni d’oro della Tunisia, in cui una parziale assenza di libertà veniva bilanciata da ricchezza, progresso e tranquillità.
È in nome di questo desiderio che molti tunisini si sono turati il naso e hanno accettato di votare listini bloccati uninominali contenenti ex membri del partito di Ben Alì. Il desiderio di pace, il timore dello spettro del fondamentalismo della sponda del levante ha sicuramente inciso su questo voto, che per molti appare come un voto utile. Di quale utilità si tratta? Allontanare le paure di attacchi terroristici, ridurre l’inflazione aumentata a dismisura negli ultimi tre anni, così come la disoccupazione (una delle principali fonti di ricchezza è il turismo sulla costa, che ha subito inflessioni a causa dell’instabilità politica del paese), e il conflitto sociale: la libertà di espressione ha portato a forti polarizzazioni del dibattito pubblico, tra due identità del paese che non si erano mai confrontate e faticano, spesso, a trovare punti di contatto. Se sul piano degli immaginari il paese islamista e non secolare confligge con quello modernista (laicità è un termine improprio per parlare di Tunisia), sul piano economico i due grandi partiti di Ennhada e Nidaa Tounes sono accomunati dalla stessa visione liberista e da una grande apertura agli investimenti stranieri: variano solo le partnership. Se il partito dei Fratelli Musulmani ha offerto spazi per gli investimenti del Golfo, “l’appello alla Tunisia” è invece fonte di richiamo per i capitali europei. Questi bisogni prevalgono spesso sulla critica politica: come coniugare la domanda di giustizia sociale e di welfare con l’apertura al mercato delle delocalizzazioni, alla privatizzazione del territorio nazionale e alla svendita di risorse (gas naturale e fosfati)? Per questo i giovani che avevano sognato una rivoluzione che somigliasse alle canzoni di Bob Marley, di Gultrah e dei molti rappeurs non hanno votato, si sono sentiti traditi, hanno denunciato la distanza della politica dai loro bisogni, ma non hanno cercato di proporsi come nuova alternativa alle vecchie strutture politiche. L’esito ha assegnato 85 seggi a Nidaa, 69 a Ennahda, 16 all’UPL, 15 al Jebha Chaabia, 8 ad Afek e 24 ai piccoli partiti rimanenti.
Come guardare a queste votazioni? In molti osservatori si sono chiesti se il progetto della cosiddetta “Primavera araba”, definizione e racconto rivoluzionario prodotto spesso dall’Occidente, sia finalmente riuscita. Come valutare le contraddizioni che ancora attraversano il paese? Il processo costituente conclusosi a gennaio con la promulgazione della Costituzione tunisina potrà proteggere i cittadini dal rischio di una restaurazione dei vecchi poteri, oggi legittimamente eletti? Solo qualche sera fa amici venivano fermati da sconosciuti che sindacavano sulle frequentazioni, sulle persone poco raccomandabili, con non troppo velate minacce. Basteranno i nuovi diritti e le istituzioni di garanzia a combattere le forme di controllo formale e informale che non hanno mai del tutto abbandonato il paese? Riusciranno i partiti a trovare un accordo elettorale e a formare un governo in grado di poter riavviare un’economia bloccata da quasi tre anni di stallo politico? All’indomani delle elezioni i partiti si dicono possibilisti, e aspettano l’esito delle presidenziali per stringere alleanze.
Si pensa sempre alla rivoluzione come ad un momento, mentre, anche in astronomia, rappresenta un processo, un percorso, la traiettoria di un pianeta. Solo i prossimi mesi permetteranno di comprendere se l’ellissi democratica si potrà dire conclusa, se il processo rivoluzionario avrà finalmente raggiunto una stabilità o se, al contrario, le istituzioni formali non saranno sufficienti per demolire stratificazioni, pratiche di violenza strutturale, e per riuscire a cambiare la fiducia nello Stato dei cittadini tunisini. La legalità è un piccolo passo, per la legittimità e per la democrazia, forse, sarà necessaria ancora un po’ di pazienza. L’aria che tira non lascia ben sperare.
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