Geopolitica

Piazza Taksim presenta il conto: alla Turchia non piace più il sultano Erdogan

8 Giugno 2015

Avrebbe voluto essere il padre fondatore di una Repubblica presidenziale in Turchia per continuare ad alimentare il suo progetto politico e culturale: un conservatorismo, di matrice religiosa, che punta sul benessere economico per ottenere il consenso popolare. E benedire così con i numeri la propria visione che intanto penetra nella base sociale tra una censura e una restrizione della libertà in nome della fede islamica.

Ma il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan ha dovuto fare i conti con la democrazia: gli elettori hanno consegnato al suo Akp, il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo, una maggioranza insufficiente a portare avanti l’opera iniziata ormai nel 2002, 13 anni fa. Con meno di 260 parlamentari sul totale di 550, il meglio che possa capitare è un governo di coalizione. Un risultato che in pochi avevano pronosticato, me compreso. Anche perché le opposizioni non hanno l’intenzione di fare la stampella a nessuno, compreso i nazionalisti del Mhp “Lupi Grigi”. Anzi in linea teorica potrebbero unirsi per formare un esecutivo, che però sarebbe davvero troppo disomogeneo. Per questo motivo appare una pura suggestione, facendo prendere quota l’ipotesi di un ritorno al voto quasi immediato.

La sconfitta di Erdogan è ovviamente anche una cocente sconfitta per il premier di Ahmet Davutoğlu, attuale primo ministro e delfino del Sultano. D’altra parte il capo dello Stato non è stato certo un esempio di imparzialità, a dispetto del suo ruolo teoricamente super partes. In campagna elettorale ha cercato di usare la sua leadership per consentire all’Akp di raggiungere i numeri non solo per governare senza alleanze (con 276 seggi), ma addirittura per modificare la Costituzione con la conquista di 330 seggi e chiedere poi ai turchi, attraverso un referendum, se avvrebbero voluto il presidenzialismo chiesto dal partito di maggioranza.

Non tutte le responsabilità sono dunque di Davutoğlu. Anzi, potrebbe essere solo un parafulmine. La verità è che, a distanza di tempo, piazza Taksim ha presentato il conto, rispondendo come si fa nelle democrazie mature: trasportare il dissenso dai cortei alle urne. La strepitosa affermazione del Hdp, il partito di sinistra filo-curdo che ha superato la soglia del 10%, indica che qualcosa si è mossa nella società e in particolare nella minoranza curda.

Per Erdogan le elezioni parlamentari del 2015 rischiano infatti di segnare l’inizio del suo declino. Tuttavia il suo sistema di potere scricchiolava proprio quando a piazza Taksim si sono ritrovate migliaia di persone contrarie alle sue politiche conservatrici e in odor di corruzione. Ora nell’Akp qualcuno potrebbe rinfacciargli l’eccessivo potere acquisito, rendendo il voto una sorta di referendum sulla sua persona. Il presidenzialismo, del resto, era un suo obiettivo personale. E queste stesse ambizioni hanno provocato la dolorosa rottura con Fethullah Gülen, il capo del movimento Hizmet, molto ben radicato nelle ruoli di potere del giornalismo e della magistratura. E con cui c’è stato un feroce regolamento di conti con arresti ed epurazioni di esponenti riconducibili a Hizmet.

La vera fortuna politica di Erdogan è la debolezza dei suoi avversari: il Chp, i repubblicani eredi della tradizione del padre fondatore della moderna Turchia Mustafa Kemal, non rappresentano una reale alternativa. Ma un punto resta ineludibile: il presidente ha subito un duro colpo con il rallentamento del suo progetto. Un evento che complica il sogno di diventare il punto di riferimento nella regione – afflitta da tante crisi – anche al costo di avere un ruolo ambiguo (se non benevolo) nei confronti dell’Isis. Gli elettori turchi, insomma, gli hanno mandato un avviso: e se i kemalisti trovassero una leadership forte, potrebbero assestare il colpo del ko al Sultano. Già ora costretto ad accettare l’onta di una vittoria che odora di sconfitta.

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