Mediterraneo

Nell’Egitto di al-Sisi, dove vengono arrestati i giornalisti

31 Agosto 2015

Un giorno nero per la libertà di stampa. Il titolo di Al Jazeera, per quanto non proprio un esempio di originalità, sintetizza perfettamente la reazione di fronte alla sentenza di condanna emessa in Egitto per tre reporter dell’emittente araba. Baher Mohamed, Mohamed Fahmy e l’australiano Peter Greste (ora tornato in patria dopo il provvedimento di espulsione delle autorità del Cairo) devono scontare una pena di tre anni per aver “diffuso notizie false” a sostegno di presunte attività “terroristiche” della Fratellanza Musulmana. Il messaggio è chiaro: nell’Egitto del presidente Abdel Fattah al-Sisi, i giornalisti devono attenersi alle versioni del governo. Punto. In caso contrario incappano nei fuochi incrociati della ‘giustizia di Stato’. L’esatto contrario dell’esercizio della libertà di informazione: il giornalismo diventa un crimine.

La vicenda è iniziata a fine dicembre 2013, con il primo processo poi cancellato, avviato a febbraio 2014. Il secondo pronunciamento, arrivato nell’ultimo fine settimana di agosto, conferma comunque la colpevolezza. Informare diventa un reato, una “destabilizzazione” della tenuta politica. Di fronte a questa situazione la campagna mediatica ‘#FreeAJStaff – Journalism is not a crime’ ha ripreso nuovo vigore, sotto l’impulso di Al Jazeera. Peter Greste ha lanciato un appello alla mobilitazione internazionale. “Per continuare la lotta abbiamo bisogno del sostegno dei governi di tutto il mondo e di tutti coloro che hanno inviato un tweet o creato pagine Facebook”, ha affermato dopo essersi detto “Scioccato, offeso e arrabbiato”. Sono arrivate dichiarazioni di appoggio, pacche sulle spalle virtuali. Ma nulla di più

Certo, il discorso è complicato, perché il verdetto è inevitabilmente “politico”, come sostenuto dai vertici di Al Jazeera. E il senso va rintracciata anche in un altro aspetto, meno luminoso: la Cnn araba ha la sede principale in Qatar, Paese con cui il Cairo ha più di qualche divergenza di vedute, in particolare sullo scacchiere libico dove il Qatar sostiene il governo islamista di Tripoli, mentre al-Sisi appoggio l’esecutivo ufficiale rifugiato a Tobruk. Non è direttamente una vendetta per interposta persona, ma qualcosa di simile con una missiva inviata a chiunque voglia contraddire le posizioni ufficiali del potere in egiziano. Specie se si parla di appoggio a movimenti di ispirazione islamica, come la Fratellanza Musulmana.

Abdel Fattah al-Sisi non è quindi il leader politico da prendere propriamente come esempio, al contrario di quanto continua a fare il presidente del Consiglio italiano Matteo Renzi che dopo la scoperta del giacimento Eni ha subito telefonato all’ex generale. La partnership economica va tenuta ben distinta dal sodalizio politico. Perché in Egitto c’è un grande problema: un pesante deficit di democrazia, davanti a cui in molti continuano a girarsi dall’altra parte in nome della realpolitik della guerra agli islamisti. E il presidente egiziano sta proprio sfruttando questo aspetto per ottenere il consenso della comunità occidentale. Tanto che alcuni principi come la libertà di stampa vengono liquidati senza troppi fronzoli, al di là di qualche generica condanna rispetto alla tutela dei diritti.

Così il grido disperato di Peter Greste rischia di restare inascoltato: l’Occidente sembra disposto a sacrificare qualche cronista sull’altare della guerra all’estremismo islamico.

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