Mediterraneo
La strage di Tunisi dice che la questione non è islamica, ma umana
Nuovamente sotto attacco. Il nemico indefinito colpisce ancora, nel nome dell’indefinito. Questa volta il teatro diventa un museo tunisino, il museo centrale del Bardo a Tunisi, a due passi del Parlamento, nel cuore della nazione. Araba, questa volta. Extraeuropea, questa volta. L’obiettivo è occidentale, è il turismo. In questi momenti si contano morti non confermati e si parla di blitz delle forze speciali per tentare di neutralizzare i terroristi. Terroristi che non colpiscono in casa, ma fanno male in trasferta, in quel Maghreb che quattro anni fa si stava liberando dissero, che si stava emancipando, dicevano. Una punizione per la tentata rivolta? O più semplicemente un’iniziativa figlia di quel caos nero che spesso Isis e affini hanno dimostrato di amare e di maneggiare con maestria?
Le analisi sul campo possiamo volentieri lasciarle ai colleghi che da anni raccontano il territorio scevri da logiche propagandiste, quei colleghi abituati a scrivere ciò che si appura e non ciò che si interpreta, fieramente o meno inviati, corrispondenti, embedded. A noi il compito di raccogliere le sensazioni del destinatario, cercare di comprendere il rapporto -certamente non buono- tra il timoroso occidentale e il minaccioso mittente oscuro, in una sorta di termometria emotiva di quella che pare essere una società sì incollata agli schermi, ma anche sull’orlo di una crisi nervosa.
A Tunisi i morti sono più di dieci, forse più di venti: è iniziata la conta. Inizieranno anche gli approfondimenti, i talk show, i confronti tra esperti, teologi, storici, analisti militari. La Tunisia ruba la scena alla Libia così come la Libia la rubò alla Tunisia, sempre in primavera: falsa quella, autenticamente astrologica questa. Dovremmo attenderci ora l’Egitto, che comunque ha le sue grane. Fu proprio in Egitto che il 17 novembre del 1997 accadde un fatto simile, chiamato “Massacro di Luxor”. I tragici fatti prendono il nome dalla celeberrima località ove furono uccise 62 persone dal Gruppo Islamico, sedicente formazione integralista -a detta di molti responsabile dell’omicidio del presidente Sadat nel 1981 e poi confluita in Al Qaeda negli anni seguenti.
D’altronde dal 7 gennaio parigino le eco non hanno esaurito certo propulsione: l’Europa -e il mondo intero- si sono improvvisamente scoperti più insicuri di quel che già fossero anche sull’aspetto militare, dopo anni di vacche magre e di crisi finanziaria. Attenti a non confondere il 2001 con il 2015, alcuni si sono risvegliati consci di nuove risorse e consapevoli di nuovi limiti, cercando di rispondere e soprattutto cercando di indicare un allenamento che produca sicurezza dall’interno, senza per forza avallare il sidekick vigilanting proprio di una trincea novecentesca. Stiamo, stanno, sto. Ognuno reagisce e risponde come può, ognuno cerca di far fronte all’indefinito terrore con il naturale antidoto: la definizione, la selezione e il racconto dei diversi aspetti di un teatro del vago, in cui la principale dedizione sembra quella di far giungere il Verbo, più che disinnescarlo.
Da anni va contorcendosi la questione dello scontro globale tra civiltà, una sorta di lotta inevitabile in cui anche la religione ha un abito molto stretto. Il minestrone avvolge temi più disparati capaci di fluttuare lungo tutto lo scibile: la tutela delle donne, la blasfemia, una presunta quanto indefinita superiorità ancestrale, lotte di confine secolari, dispute teologiche millenarie, scontri sociali, caccia alle streghe, razzismo sincero e razzismo ipocrita.
La stampa di questo non pare curarsi, anche perché la componente emotiva comprende un solo risultato, ossia la definizione indefinita del nemico. Cos’è una definizione indefinita? Una definizione che passa obbligatoriamente attraverso l’indefinito, che è il reale elemento destabilizzante. Il concetto di indefinito destabilizza nella sua scarsa percezione esattamente come il concetto di infinito, privilegiando però l’accezione qualitativa, e non quantitativa. Dell’indefinito fa paura la genesi, dell’infinito fa paura la mancanza di traguardo.
Nei meandri dell’informazione la partita innescata dai video di Bin Laden è roba d’epoca, quella dei video splatter patinati, come abbiamo visto, alla lunga inefficace. Si marcia dunque sulla libertà di espressione, sul derby tra i mondi, su spicce questioni di rispetto religioso: sono questi i temi senza data di scadenza apparente.
Recentemente sul Corriere della Sera un corsivo di Pierluigi Battista indicava la serie House of Cards come simbolo della libertà d’espressione. Sì, una serie televisiva. D’altronde questa è l’era delle serie televisive, non più cadenzate dalle emittenti come negli scorsi decenni ma sfornate a pacchetti dal consumo libero e indiscriminato, con il pubblico a decidere tempi, durata e modalità di assorbimento.
Le serie televisive e la libertà di espressione. La società dello spettacolo che ruggisce di passione e s’intreccia col reale: Carminati è o non è il Nero di Romanzo Criminale? A Giugliano comanda ancora Genny Savastano? Com’è gestito il traffico di stupefacenti sintetici negli Usa? La base è davvero in New Mexico come in Breaking Bad? I passeggeri del volo MH370 si trovano in un’isola senza tempo come quella di Lost?
Mille e più domande attanagliano il divoratore di serie, mille domande tutte rivolte verso la finzione, poche a conti fatti quelle sulla realtà. Battista ad esempio analizza solo una piccola scena, discutendo di legittimità e di libertà di oltraggio:
C’è una scena nella terza serie di «House of Cards» che può offendere i cristiani, ferirli nei loro sentimenti -scrive Battista- Anzi, li ha già feriti, li ha già offesi e i blog cattolici, negli Usa, sono già in subbuglio. Si vede lui, Frank Underwood, il presidente degli Stati Uniti che ha conquistato la Casa Bianca con la complicità della moglie Claire e con intrighi e omicidi pazzeschi, entrare in una chiesa per farsi perdonare delle nefandezze compiute nella sua scalata al potere. Il prete gli nega il perdono e si allontana.C’ è una scena nella terza serie di «House of Cards» che può offendere i cristiani, ferirli nei loro sentimenti. Anzi, li ha già feriti, li ha già offesi e i blog cattolici, negli Usa, sono già in subbuglio. Si vede lui, Frank Underwood, il presidente degli Stati Uniti che ha conquistato la Casa Bianca con la complicità della moglie Claire e con intrighi e omicidi pazzeschi, entrare in una chiesa per farsi perdonare delle nefandezze compiute nella sua scalata al potere. Il prete gli nega il perdono e si allontana. Allora Underwood sputa nell’occhio di Gesù Cristo nel crocefisso appeso alla parete. Poi, più per non farsi scoprire che per sincero pentimento, cerca di asciugare il crocefisso che però, per colpa del presidente maldestro, cade e si frantuma in mille pezzi. Il presidente degli Stati Uniti raccoglie da terra l’orecchio e auspica, sarcastico, che il Signore almeno in questo modo potrà ascoltarlo.
Questa la scena presa come esempio, da cui partorire la tesi. Il presidente degli Stati Uniti sputa sopra il crocifisso, e dunque questo è il simbolo della libertà occidentale: poter oltraggiare.
Ora, è inopportuno, provocatorio, spregevole, domandarsi: se una scena del genere avesse avuto come vittima non un crocefisso ma qualcosa che riguardava, per dire, Maometto, ci sarebbe stata una reazione così tollerante?
Questa la domanda di Battista. Ricapitoliamo: una serie tv americana racconta un oltraggio di un -discutibile- presidente Usa al crocifisso, e le polemiche tolleranti non seguite da intimidazioni o da raffiche di mitra sono il simbolo di una società cristiana -identificata con quella occidentale- superiore a quella islamica, dove invece per una vignetta contro Maometto puoi morire. Il messaggio che passa è questo.
Sorvolando le polemiche -esagerate e ingiuste- che non pochi hanno mosso alla puntata, rumorose a tal punto da indurre il Corsera a dedicarci un corsivo- possiamo dire che il concetto di libertà d’espressione abbia preso col tempo una piega sempre più sinistra. Perché se la satira ha un compito sociale molto importante, magari non per tutti allo stesso modo ma molto importante, chi sputa su un crocifisso non fa satira, così come chi offende la fede di qualsiasi persona: è la stessa scena a comunicarlo. Non è un invito alla libertà di espressione, è piuttosto un invito alla censura di alcuni atteggiamenti.
La satira ha modalità comunicative diverse da un’opera cinematografica palesemente non satirica: metterle in paragone facilita la rottura della bussola. Il pluralismo di una società passa anche attraverso la denuncia e la parodia comica o tragica del Male, inteso non dal punto di vista geografico, ma da quello personale. Per intenderci, esistono diversi video in arabo che deridono l’Isis, esiste satira religiosa anche nei paesi islamici, esistono film di denuncia anche se certo la denuncia è più difficile farla in Iran rispetto che in Europa o negli States, ma quelli non sono certo problemi di natura geografica, sono disfunzioni -chiamiamole così- dell’indole umana per cui a volte si scopre che qualcosa si paga, a chi sta più in alto. E lo si paga sempre, chi più e chi meno, a qualunque latitudine.
L’Isis ci insegna d’altronde che il Male non è proprio là, e neanche esattamente laggiù. Non sappiamo dov’è: è proprio questo il bello del nuovo Male, è proprio questo ciò che dà pepe alla sceneggiatura del reale. Occorrerebbe forse riflettere sulla sua posizione, sulla sua genesi, sulla sua direzione. Una cosa è certa: continuare ad indicare qui e lì tracciando una linea spartiacque e continuando a ripetere “guardate come siamo/sono bravi, invece loro/noi no”, anche a costo di arrampicarsi in costruzioni di idee articolate, difficilmente ci farà muovere anche solo di un passo.
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